In Parlamento
Il Presidente del Consiglio Renzi in previsione del Consiglio Europeo
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- Giovedì, 19 Marzo 2015 10:32
Signora Presidente, onorevoli deputati, l'appuntamento del Consiglio europeo di domani e di dopodomani si colloca in un momento di particolare importanza e rilevanza nello scacchiere geopolitico europeo e internazionale. Ma per tutte e tutti noi è impossibile affrontare una discussione in quest'Aula senza avere portato il nostro pensiero innanzitutto a ciò che in queste ore sta avvenendo in Tunisia, un Paese che ha visto per primo lo sviluppo della cosiddetta «primavera araba» e che per primo – starei per dire per unico – per il momento si è dotato di un quadro costituzionale e istituzionale innovativo, corroborato e rinforzato, anche recentemente, dallo svolgimento delle elezioni.
Ebbene, quest'oggi, questa mattina, qualche ora fa, come tutti voi sapete, un attentato, la cui matrice è facilmente riconducibile a un determinato tipo di minacce, ma le cui rivendicazioni sono ancora in fase di verifica da parte degli inquirenti, ha provocato la morte di alcune persone e il ferimento di altre, dopo un periodo di presa di ostaggi, in un luogo simbolico, in un museo, un luogo di cultura di un Paese islamico moderato, nelle immediate vicinanze di un luogo altrettanto simbolico, un Parlamento, il Parlamento, un luogo istituzionale, il luogo della democrazia, e in una cornice di minaccia, con evidente riferimento alla grave crisi mondiale che stiamo vivendo.
Prima di tutto il pensiero va alle vittime, alle loro famiglie, alle persone che sono ferite. Non siamo nelle condizioni di ufficializzare il numero degli italiani coinvolti e credo che questa non sia la sede, essendosi, come è naturale e come è d'uopo, messa in moto la macchina dell'unità di crisi della Farnesina, cui invitiamo a fare riferimento innanzitutto alle persone che hanno parenti in Tunisia. Ma credo che, indipendentemente dal giudizio che verrà dato, con più lucidità e calma, nelle prossime ore, vi sia un dato di fatto inoppugnabile e, cioè, che laddove si cerca di aggredire le istituzioni democratiche, la cultura, la moderazione che caratterizza il Governo tunisino, in qualche misura si colpisce ciascuno di noi e questo vale naturalmente per la comunanza patriottica e nazionale, per la presenza di alcuni italiani, ma vale anche per l'idea stessa che in questi anni, indipendentemente dal colore politico, tutte e tutti abbiamo cercato di portare avanti.
Per cui, il primo pensiero va ai nostri connazionali coinvolti, ma non soltanto ai nostri connazionali, e il nostro convinto sostegno al Governo tunisino, perché possa uscire da questa prova con determinazione e forza. L'Italia sarà al loro fianco.
Credo che il Consiglio europeo di domani e dopodomani sarà un Consiglio europeo incentrato su quattro temi di fondo, che sintetizzo in modo molto rapido, al limite dell'accetta: il tema economico, il tema energetico, il tema ucraino, connesso adesso alla grande questione del partenariato orientale, anche se questa è più una forzatura da ordine del giorno che non una reale contiguità, perché il tema ucraino è innanzitutto un dossier legato alla situazione di crisi, e la Libia. Questi sono i quattro punti su cui rapidamente vado ad intrattenervi per qualche minuto.
Credo, però, che non possa non evidenziare, intervenendo qui per la prima volta sul tema specifico dopo tre mesi, che in questo arco di tempo che ci separa dall'ultimo dibattito parlamentare sul Consiglio europeo davvero qualcosa sia cambiato. I signori deputati e le signore deputate ricorderanno bene in quale clima si svolse l'appuntamento del dicembre 2014, non soltanto per la naturale dialettica che vede contrapposta la maggioranza e le opposizioni, ma anche perché in quel momento il Parlamento e, in particolar modo, la Camera dei deputati erano impegnati in un difficile dibattito sulla legge di stabilità, perché il percorso delle riforme era alla seconda lettura, tanto per ciò che riguarda la legge elettorale, in questo caso al Senato, e la riforma costituzionale, in questo caso alla Camera, e perché tante di quelle riforme, chieste e in qualche modo condivise sia dal Parlamento che dalle istituzioni europee, poi certificate dalle specifiche raccomandazioni della Commissione dell'aprile 2014, ma anche degli anni precedenti, sembravano essere in una sorta di limbo, in una posizione di attesa.
Oggi, a distanza di tre mesi, possiamo dire che non soltanto si sta muovendo qualcosa, ma che la direzione politica economica dell'Europa è diversa rispetto a quella di tre mesi fa. Può piacere o può non piacere, si può essere d'accordo, si
può non essere d'accordo. Non è necessario ricorrere al pensiero unico persino nelle valutazioni sul tema delle riforme, non soltanto quelle più rilevanti, costituzionali ed elettorali, ma penso a quella della pubblica amministrazione, che ha appena iniziato il percorso al Senato, della giustizia, con l'approvazione della responsabilità civile, gli accordi fiscali con alcuni Paesi, con la fine del segreto bancario; tante questioni si sono verificate, alcune condivise, altre meno apprezzate. Ma l'idea che l'Italia si sia rimessa in moto e con essa l'Europa abbia cambiato direzione mi sembra difficilmente negabile. Lo dico facendo riferimento non semplicemente all'inversione dei segnali di fiducia che riguardano non soltanto i cittadini consumatori, ma anche il mondo delle imprese. Lo dico proprio pensando nel merito ai cinque punti più rilevanti che hanno cambiato la politica economica europea a livello continentale. Cinque punti di cui quattro sono ascrivibili all'azione della politica; uno, invece, onestà intellettuale esige che sia ascritto ad una complicata valutazione geopolitica, ma su cui il Governo italiano, ma credo anche di poter dire le istituzioni europee, sono stati sostanzialmente ininfluenti. Mi riferisco alle questioni legate al piano di Jean Claude Juncker sugli investimenti, alla comunicazione sulla flessibilità, entrambe approvate lo stesso giorno in cui terminava il semestre europeo, il 13 gennaio di quest'anno, alla questione del QE della Banca centrale europea e alle modifiche che si sono verificate sui mercati, anche a seguito di queste decisioni, nel rapporto tra dollaro e euro. Vi è un quinto argomento, che è decisivo per la nostra economia, e che non riguarda e non è ascrivibile a un'azione da parte nostra, e mi riferisco al petrolio, al costo del petrolio, che trova le sue valutazioni e motivazioni in complicate ragioni geopolitiche, sulle quali non mi dilungherò. Ma questi cinque fattori di novità sono cinque fattori che hanno non soltanto cambiato il clima in Italia, hanno ridato la speranza alla politica di poter incidere.
E questo accade, è accaduto e continuerà ad accadere, se considereremo l'Europa non come un soggetto estraneo da noi, cui rivolgere i nostri strali durante le campagne elettorali o i dibattiti, ma se la considereremo sempre di più un soggetto politico in grado di essere cambiato dall'interno. È questa, se ci pensate, la scommessa, che si può condividere o meno, delle elezioni del maggio 2014, di chi quelle elezioni le ha vinte, ed è questa la scommessa di chi quotidianamente pensa di poter incidere nel panorama europeo, sapendo che il panorama europeo è particolarmente difficile e delicato, non solo per i lunghi anni in cui si sono perse delle occasioni, ma anche perché, oggettivamente, la crisi con la quale ci troviamo a fare i conti è una crisi di sistema, si sarebbe detto una volta.
Ma è una crisi che si può vincere, se smettiamo di utilizzare, come abbiamo fatto durante il semestre europeo, le parole tipiche di questo ultimo decennio – debito, austerity, privatizzazioni – ed entriamo, invece, sul tema delle riforme, della crescita, dell'innovazione. Questo è stato il cambiamento prodotto dall'azione del semestre europeo italiano e, segnatamente, del Ministro Padoan.
Questo tipo di modifica, questo tipo di cambio di direzione, ovviamente, non si inserisce in un mondo a parte; si inserisce in una dinamica molto complicata e complessa, perché, in questi tre mesi, l'Unione europea ha avuto il momento di massima – si sarebbe detto – visibilità in un momento drammatico: quella domenica 11 gennaio in cui, non soltanto i leader dei singoli Paesi, non soltanto molti leader dei Paesi vicini all'Unione europea, ma anche e soprattutto milioni di cittadini europei, in alcuni casi anche italiani, a Parigi, hanno marciato fianco a fianco per dire «no» al terrore, per respingere con forza la minaccia di chi prova a farci morire come vorrebbe lui o, in alternativa, si accontenta di farci vivere come vorrebbe lui, vale a dire nel terrore.
Quella manifestazione, quella dell'11 gennaio, la marcia di Parigi, ha dimostrato che l'Europa è qualcosa di più di un insieme di riforme, di regole, di numerini, di cifre, ma ha anche dimostrato che vi è bisogno di una politica in grado di fare la propria parte.
E allora – e vengo rapidamente ai punti in discussione – non dimentichiamo, però, che questo Parlamento, in questi tre mesi – lo dico rispettando le singole opinioni e le singole valutazioni – ha dimostrato che si può incidere nella storia di un Paese e nella storia di un continente come quello europeo. Potrei citare alcune riforme che sono state approvate, anche con una divisione all'interno dei vari schieramenti, e che oggi vedono dei risultati.
Infatti, se oggi i primi dati economici sull'occupazione segnano un'inversione, probabilmente le scelte fatte sul Jobs Act non sono ininfluenti; naturalmente, ciascuno avrà la propria valutazione, non voglio aprire qui un dibattito su questo. Voglio dire, però, che questo Parlamento ha dimostrato di essere nelle condizioni di avere uno sguardo lungo, e non vi è luogo, momento e immagine più simbolica di quando il Parlamento, in seduta comune, ha eletto, a dispetto di tante previsioni e anche a dispetto di tante paure di larga parte di noi, il nuovo Presidente della Repubblica (Applausi), vincendo quella difficoltà che si era registrata nell'aprile del 2013 e che aveva costretto a un supplemento di sforzo il Presidente della Repubblica Napolitano.
Lo dico perché – e ho davvero terminato la fase introduttiva – tutta questa premessa è un modo per dirvi grazie. È un modo per dirvi grazie perché questa legislatura sembrava destinata a una fine precoce e questa legislatura sembrava non in grado di affrontare le sfide così complicate e delicate che ha di fronte a noi lo scenario internazionale.
Ciò che è accaduto in questi tre mesi, con l'inversione di tendenza della fiducia da parte dei cittadini, ma con la capacità della politica di prendersi delle responsabilità, alcune condivise, altre meno, dimostrando, però, che, facendo le cose, le cose cambiano, ha dimostrato che il termine naturale di questa legislatura è quello del 2018 e che a tutte e a tutti è dato il compito di mettersi in gioco perché l'Italia sia all'altezza delle aspettative che sta suscitando. Le sta suscitando essenzialmente in questi quattro punti (andrò per titoli, molto brevemente): il primo, la questione economica. Avere invertito la rotta è stato un fatto positivo, ma non è sufficiente.
Nella discussione di venerdì mattina, ciò di cui dovremo tener conto non è soltanto un buon bilancio dei risultati del semestre e del rinnovato clima di crescita che il vecchio continente sembra poter cogliere; va affrontato il principio per il quale oggi si continua ad investire sulle riforme, in particolar modo le riforme strutturali, ma si chiede sempre di più alle istituzioni continentali di essere parte attiva di questo percorso di crescita e non limitarsi ad essere un luogo della burocrazia. Perché questo accada l'appuntamento principale di quest'anno sarà il Consiglio di giugno, non quello di marzo, quello in cui il rapporto dei quattro Presidenti sarà presentato all'attenzione dei Capi di Stato e di Governo, ma già nel dibattito di venerdì mattina sarà fondamentale mettere in atto le condizioni perché questa rinnovata spinta verso la crescita sia evidenziata e sottolineata, non come richiesta di qualche Stato in difficoltà, ma come patrimonio comune di tutta l'Unione europea, anche perché, lasciatemelo dire con grande sincerità, nel Consiglio informale di febbraio ad un certo punto il Presidente Juncker ha presentato una slide nella quale si vedevano i risultati di Stati Uniti e Europa dal 2008 ad oggi, 2008-2014, sei anni, su due voci specifiche: la disoccupazione e la crescita del PIL. Si assumeva come punto di partenza cento in entrambi casi, quindi le performance dei due singoli Paesi, Stati Uniti ed Europa, erano messe allo stesso livello, e si vedeva la curva. Dopo un primo momento di calo in America, l'America riprendeva, dopo un aumento dei disoccupati, i disoccupati scendevano, esattamente l'opposto di ciò che è accaduto in Europa. Non credo che ci sia sintesi più efficace del fatto che le politiche di crescita che hanno attuato i governanti degli Stati Uniti sono state capaci di funzionare e che le politiche che sono state attuate in questi anni in Europa non hanno funzionato. Ecco perché vi è la necessità di investire su una linea nuova e di invertire la tendenza come abbiamo iniziato a fare ancora troppo timidamente.
Il secondo punto: efficienza, sostenibilità, sicurezza, diplomazia energetica. Ho messo questi titoletti perché tutti voi saprete che la Commissione Juncker ha espresso un piano ambizioso rispetto alle questione energetiche. Il rischio del Consiglio europeo di domani – la discussione si terrà nel primo pomeriggio, appena terminata la fase dei saluti e dell'introduzione – è quello di voler isolare la questione, pure cruciale della sicurezza energetica, dal resto delle questioni che il progetto Juncker ha messo come centrali nella valorizzazione della politica energetica. In altri termini, si pensa di poter discutere soltanto dal rapporto con l'Oriente – questo viene, in particolar modo, da alcuni Paesi – dei problematici rapporti geopolitici con la Russia e non solo, e di non toccare tutti gli altri temi che vanno dall'efficentamento energetico, alla Conferenza di Parigi, dalla valorizzazione delle interconnessioni, segnatamente tra Spagna e Francia, alla riorganizzazione di un mercato unico interno che sia nelle condizioni di fare la propria parte; questo è lo scenario nel quale ci muoviamo. La posizione italiana dovrà essere una posizione severamente in linea con l'impostazione della Commissione per come è votata dal Parlamento europeo, cioè i temi energetici si tengono tutti insieme. Naturalmente siamo pronti a qualsiasi discussione geopolitica, essendo il nostro, il Paese che, per primo, ha sottolineato come quella grande ambizione del Mediterraneo hub del gas e dell'Africa come luogo centrale dello sviluppo energetico del nostro Paese, dovesse essere non soltanto difesa, ma promossa, incoraggiata e valorizzata nel corso degli anni. Noi continueremo a farlo con convinzione e determinazione, ma diciamo allo stesso tempo che c’è la necessità, assolutamente fondamentale, di non chiudere la discussione semplicemente sul rapporto tra Paesi orientali e Russia perché sarebbe riduttivo. Questione che peraltro sarà oggetto della discussione nel terzo dei quattro punti che ho citato, che è quello che riguarda l'Ucraina. Nei tre mesi, si sarebbe detto una volta nei tre mesi non collegati, nei tre mesi in cui il Parlamento non ha discusso specificamente dei lavori del Consiglio europeo, si sono verificati significativi passi in avanti nella questione della crisi ucraina; mi riferisco, in particolar modo, al protocollo di Minsk che per noi va approvato, seguito e implementato ogni giorno.
Il Protocollo di Minsk costituisce non semplicemente il faro per l'azione diplomatica dei singoli Paesi, ma deve essere anche il punto di riferimento per gli impegni di entrambi i lati. Credo che, da questo punto di vista, l'iniziativa diplomatica italiana, che è partita da Kiev e poi a Mosca nei primi giorni di marzo, sia un'iniziativa che abbia un valore specifico e puntuale: quello di richiamare le singole realtà in gioco e in ballo a fare la propria parte, ma anche contemporaneamente di offrire alcuni modelli. È del tutto evidente che la Russia deve mantenere il rispetto della sovranità e dell'indipendenza dell'Ucraina. Nessuno lo può mettere in discussione. È altrettanto evidente che, da parte ucraina, ci attendiamo che il processo di riforme costituzionali, teso a garantire dentro lo Stato sovrano indipendente dell'Ucraina uno spazio di libertà e di autonomia per le popolazioni russofone, debba essere il più possibile implementato con rapidità.
Allora, da questo punto di vista, perché non pensare ai modelli che, ad esempio, Italia e Austria possono offrire ? Ciò che è accaduto in Trentino Alto Adige, nel corso degli sviluppi successivi alla Seconda guerra mondiale, costituisce un punto di riferimento di straordinaria valenza e di straordinario significato. L'Italia è nelle condizioni di poter continuare a giocare la propria partita insieme ai partner europei e ai partner del G7, partendo dall'assunto che in Ucraina non c’è alternativa alla soluzione diplomatica e che questa soluzione diplomatica non può prescindere dal completo rispetto degli accordi di Minsk.
Ultimo punto in discussione è quello relativo alla questione della Libia. È un tema ampio, complicato. Il Parlamento e la Camera dei deputati hanno discusso più volte di politica estera in questo momento e in questa fase. Ciò che sta avvenendo in Libia richiederebbe naturalmente tempo e spazi di discussione per le responsabilità che ciascuno porta con sé e anche – lasciatemelo dire – per la sottovalutazione che parte della comunità internazionale ha voluto esprimere in più di una circostanza. Il nostro obiettivo, infatti, è stato banalmente quello di togliere il dossier dall'ultimo posto della pila dei documenti e dei dossier e di metterlo nella centralità della discussione della comunità internazionale. Per questo i colloqui – da ultimo quello di questa mattina con Ban Ki-moon, ma potrei proseguire con i colloqui con i principali leader internazionali – sono stati finalizzati a raccontare una banale verità, ovvero che il problema della Libia, a dispetto di alcune posizioni spesso ideologiche, talvolta demagogiche, ma molto capaci di affrontare la pancia dell'opinione pubblica, un po’ meno la sostanza della realtà, non è semplicemente un problema d'immigrazione. Arrivo a provocare: sarebbe quasi positivo che fosse semplicemente un problema d'immigrazione. C’è molto di più. Magari fosse soltanto un problema d'immigrazione ! Sarebbe grave, ma lo potremmo affrontare.
Quello che oggi stiamo sottovalutando in Libia è che, intorno a quella zona dell'Africa, quella zona del nord-Africa, quella zona del Mediterraneo, si sta giocando una battaglia molto più grande di una semplice questione d'immigrazione. E non è semplicemente un regolamento di conti tribale, nel senso tecnico del termine «tra tribù». Si tratta di qualcosa di più, della capacità o meno della comunità internazionale di prevenire e prevedere (vedere prima) il rischio di un'estensione della minaccia estremista, che sarebbe devastante, non tanto per l'Europa – lasciatemelo dire – ma innanzitutto per l'Africa e quello che può conseguirne. Perché, se oggi noi stiamo discutendo della minaccia estremista soltanto in Siria e in Iraq, è anche per nostra responsabilità, perché sottovalutiamo ciò che sta accadendo in queste ore in Nigeria e ciò che sta accadendo in Camerun.
Ecco perché l'azione diplomatica di questo Governo insiste molto sul rapporto con l'Africa; non è importante il rapporto con il Congo-Brazzaville semplicemente perché ci sono interessi di natura economica che, certo, vanno difesi, accarezzati e coltivati, ma perché c’è un problema complessivo nel cuore dell'Africa, nel centro dell'Africa, che è sottovalutato dalla comunità internazionale. Se noi lasciamo che la Libia, che è un paese straordinariamente grande ed importante, che è al centro del Mediterraneo, che è il cuore del Mediterraneo, sia lasciata a sé stante, noi stiamo perdendo l'occasione straordinaria di riportare la comunità internazionale a governare processi e complicate transizioni.
Ecco perché il nostro Governo è partito innanzitutto proprio dalla Tunisia come prima visita ufficiale. Ecco perché siamo stati praticamente in tutti i Paesi del Mediterraneo e in particolar modo abbiamo discusso, ragionato e lavorato in queste settimane e in questi mesi con l'Egitto. Ecco perché pensiamo che sia cruciale per il nostro Paese affermare la centralità della Libia, certo per le questioni legate all'immigrazione, ma anche e soprattutto per le questioni geopolitiche legate all'Africa, al nord-Africa e al Mediterraneo.
Dunque, questi sono i quattro temi fondamentali. Mi presento al Consiglio europeo con la consapevolezza di una serie di problemi rilevanti che sono sul tappeto e sul tavolo della discussione. Non ho toccato, se non en passant, alcuni degli altri argomenti, come il tema del Partenariato orientale con i sei Paesi interessati. Per noi il Partenariato orientale è il Partenariato orientale; chi vi volesse vedere qualcosa in più, commetterebbe un errore. Vi è il dibattito sul TTIP, con le discussioni dentro il Parlamento europeo, con la necessità di una maggiore trasparenza, che più volte è stata ricordata, evocata e richiamata, anche dall'impegno di alcuni gruppi politici al Parlamento europeo. E vi sono altre singole questioni sulle quali non mi dilungo. Mi siedo, però, al Consiglio europeo consapevole di rappresentare, non soltanto un grande Paese che, per la forza delle proprie idee e delle proprie convinzioni e della propria storia, ha molto da dire e da dare, ma anche con la consapevolezza che il percorso parlamentare che si è aperto in quest'Aula e al Senato è un percorso parlamentare che sta profondamente incidendo nella realtà italiana. Naturalmente, ci sarà chi tra di voi pensa che questo grado di intervento sia negativo; ci sarà chi pensa che sia positivo; ci sarà chi lo riterrà ininfluente. Ma quello che nessuno può negare è che l'incantesimo in Italia si è rotto. L'idea della politica che passa il tempo a non decidere è finalmente un'idea che appartiene al passato. A noi, ma vorrei dire a voi, gentili deputati, il compito di rendere questo percorso di transizione, questo percorso di riforme che ci porterà da qui al 2018, come un tragitto complesso, ma affascinante, come la più grande occasione che il nostro Paese ha per stare in Europa, non più, come troppe volte è accaduto in passato, dietro la lavagna o messo nelle condizioni di prendere ordini per i compiti da fare a casa, perlomeno nella vulgata mediatica di chi voleva rappresentare l'Italia in queste condizioni, perché poi non è mai accaduto, ma di essere finalmente protagonista di un percorso di cambiamento che deve vedere l'Italia centrale in Europa e l'Europa centrale nel mondo.