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Dall’ambiguità al coraggio. Il Pci contro la lotta armata
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- Martedì, 23 Giugno 2015 08:59
CORRIERE DEL VENETO 23 GIUGNO 2015
Naccarato ricostruisce la politica del Partito Comunista negli anni Settanta. Il ritardo nel recidere simboli e retorica della rivoluzione. Il caso padovano, dove il conflitto con la sinistra extraparlamentare è stato duro. È uscito il libro di Alessandro Naccarato, Difendere la democrazia. Il PCI contro la lotta armata (Carocci), che cerca di fare luce su alcuni passaggi molto delicati della storia politica italiana, legati ai turbolenti anni Settanta. Un pregio del libro risiede nella scelta di non limitarsi a ricostruire il contributo del Partito comunista nella repressione della lotta armata, bensì di cercare di comprendere il contesto in cui il PCI incontra nuovi interlocutori/antagonisti alla sua sinistra. Si tratta di un contesto molto complesso. Tuttavia, si tratta di un passaggio in cui, nelle molteplici soggettività che vanno gemmando nella società, si possono trovare spinte pacifiche ed innovative accanto ai sostenitori della lotta armata e di improbabilissime rivoluzioni. In tutte le democrazie occidentali negli anni Sessanta affiorano movimenti giovanili che difficilmente possono essere incanalati nei meccanismi di rappresentanza e nei sistemi di partito del Dopoguerra. Anzi, il loro affiorare sulla pubblica ribalta annuncia che il Dopoguerra è finito. Il PCI, di fronte al nuovo, è meno chiuso e passatista di altri partiti, come ad esempio il Partito comunista francese. Tuttavia, è proprio in Italia che lo scontro diviene particolarmente grave e prolungato. Perché? L’Italia è un Paese nel quale il consolidamento della democrazia è stato reso possibile dalla presenza di partiti di massa forti e organizzati in grado di socializzare alla democrazia milioni di persone. Ebbene, l’emersione dei movimenti di fine anni Sessanta, da un lato, dimostra che i partiti hanno meno influenza sulla società italiana.
Ma, dall’altro, questo passaggio porta alla luce alcune contraddizioni irrisolte nella cultura politica dei principali partiti italiani (in primis il partito comunista), che verranno sfruttate da chi tenterà di costruire il «partito armato». Non v’è dubbio che il PCI abbia contribuito in modo sostanziale alla costruzione della democrazia italiana, ma ha tardato a recidere ogni legame con simboli e retorica della rivoluzione. Il ritardo nell’assunzione di un profilo autenticamente riformista condanna il PCI ad essere percepito da parte dell’opinione pubblica quale un partito antisistema. Il PCI è nei fatti simile nelle prassi di governo locale ad un partito laburista, o socialdemocratico, ma considerato inadeguato ad assumere responsabilità di governo a livello nazionale. Un’ulteriore conseguenza dell’ambiguità irrisolta nei propri riferimenti simbolici è quella che espone il PCI alla critica dell’estremismo. Non mancano i fautori della lotta armata che sostengono di aver perseguito nei fatti quanto il partito comunista si era limitato a sognare, ossia, per l’appunto, la rivoluzione. Come si riconosce un pericolo che proviene dall’«albo di famiglia»? Il libro di Naccarato lo spiega bene. All’inizio si rimuove: non saranno «rossi», saranno «neri». Provocazioni fasciste. Poi si capisce che fascisti non sono, ma si cerca di preservare categorie rassicuranti: non sono fascisti ma è come se lo fossero. Utilizzare categorie nate in altro contesto per definire ciò che emerge di nuovo comporta il rischio di definizioni fuorvianti, che rendono complicata la comprensione della realtà. Naccarato spiega bene quanto sia doloroso il percorso di comprensione dei fenomeni da parte del Pci, che pure già nel 1973 si mette in allerta contro i rischi del terrorismo e poi si mobilita per la prevenzione di atti violenti. La ricostruzione avanza su un doppio piano: quello nazionale e il contesto specifico di Padova, dove il conflitto fra il PCI e la sinistra extraparlamentare è stato particolarmente aspro. Nel dibattito sulle cause e le interpretazioni dell’insorgenza della lotta armata emerge il riflesso di un partito non monolitico. Soprattutto passato il giro di boa degli anni Ottanta. Nella storia della sinistra italiana il pluralismo è stato presente, anche nel campo comunista, e questo libro lo documenta dando ampio spazio al dibattito interno. A fine lettura rimane una sensazione che rimanda alle strade interrotte della democrazia italiana: gli anni Settanta hanno alimentato speranze e tempeste, hanno prodotto nel nostro Paese riforme importanti e lutti laceranti. Le insorgenze eversive hanno indotto i partiti a ridurre la ricettività di fronte ai movimenti sociali, a massimizzare le propria autonomia e a ridurre la disponibilità al confronto con la società. Si è accentuata in questo modo la distanza tra le istituzioni rappresentative e i cittadini e si è ritardato il ricambio della classe politica, che viene parzialmente rinnovata, in modo traumatico, solo con le inchieste della Magistratura negli anni Novanta. Anche questi fatti hanno contribuito ad allargare quel solco fra politica e società di cui ancora oggi ci si lamenta. Il libro di Naccarato fa emergere da vicende dolorosissime il seme di una maggiore consapevolezza della nostra storia.