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Il rigore dello storico e il coraggio di un professore che non si piegò alle minacce e alla violenza dei terroristi. Un ricordo di Angelo Ventura
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- Giovedì, 11 Febbraio 2016 10:03
Il professor Angelo Ventura è stato uno dei principali studiosi del terrorismo italiano e ha contribuito con analisi, saggi e articoli a contrastare e sconfiggere l’eversione. Non si è limitato a studiare e scrivere. Negli anni più difficili, quando i terroristi sparavano per uccidere, e le bande di Autonomia aggredivano e picchiavano docenti e studenti imponendo all’Università e alla città violenze in un clima di paura segnato da “notti dei fuochi”, “illegalità di massa” e brutalità che restavano impunite per le numerose complicità e connivenze, Ventura, insieme a pochi altri, ha continuato a insegnare, a lavorare con serietà e rigore senza farsi intimidire dagli agguati, dagli insulti e dalle minacce di morte che riceveva sempre più spesso.
Il professore fu vittima di una programmata e progressiva escalation di violenze che culminò nell’attentato del 1979: il 26 settembre venne ferito in un attentato del Fronte Comunista Combattente, la banda armata dei Collettivi Politici Veneti, uno dei gruppi dell’Autonomia operaia organizzata. Venne colpito perché non si era mai piegato alle intimidazioni mafiose degli autonomi e aveva contribuito con la sua analisi lucida e coraggiosa del fenomeno eversivo alle indagini della procura padovana. Le modalità dell’attentato e il documento di rivendicazione manifestarono che in realtà i terroristi avrebbero voluto uccidere Ventura. Infatti contro il docente furono sparati ben 4 colpi di pistola e solo la sua pronta risposta al fuoco mise in fuga gli attentatori. Il documento di rivendicazione “Colpire gli uomini e i centri della controguerriglia capitalistica” risulta di grande interesse anche a tanti anni di distanza per ricostruire il delirio sanguinario della strategia di Autonomia e capire il clima di terrore causato dai gruppi eversivi. Per gli autonomi Ventura rappresentava “il prototipo di una nuova figura di servitore e collaborazionista dello stato capitalistico” perché aveva dato “una mano non indifferente” alle indagini contro il terrorismo ed era un testimone importante. Con lo stile tipico delle organizzazioni mafiose Autonomia minacciava pubblicamente tutti i potenziali testimoni: “Tutti i provocatori e i collaborazionisti sono avvertiti. Non sempre il tiro sarà basso”. Infine, in un processo indicativo della dialettica interna al partito armato tra Brigate rosse e Autonomia, la rivendicazione lanciava un appello diretto alle Br: “Onore e un abbraccio fraterno al compagno Prospero Gallinari e a tutti i compagni caduti per il comunismo. Lottare per l’unità del movimento proletario comunista. Riunificare i comunisti in un processo politico-militare per il partito. Niente resta impunito”. Oggi questo linguaggio, depurato dalle ideologie e dai condizionamenti dell’epoca, appare nella sua assoluta assurdità, e indica la demenziale follia degli autori, una banda di assassini spietati che hanno insanguinato e terrorizzato l’Italia e Padova a lungo. Dietro alle parole e all’azione armata emergono gli obiettivi dei terroristi: la riunificazione dei comunisti “in un processo politico-militare per il partito”, la strategia del partito armato che proprio Ventura aveva contribuito a disvelare con i suoi studi e le sue denunce pubbliche. Il richiamo “fraterno” a Gallinari, un fondatore e dirigente di primo piano delle Br, ferito e arrestato dalla polizia in quei giorni, testimoniava i rapporti solidi e stretti tra Autonomia, Fronte comunista combattente e Br. Tali rapporti, costituivi del partito armato, erano in corso da anni e si erano rafforzati nel 1977, quando Gallinari fu aiutato ad evadere dal carcere di Treviso e poi ospitato dagli autonomi padovani. Quella evasione e la successiva latitanza consentirono a Gallinari di partecipare al crimine più grave commesso dal terrorismo rosso: la strage della scorta di Moro, il suo sequestro e omicidio.
La vicenda aiuta a comprendere il clima dell’epoca e quanto fu difficile e impegnativo contrastare l’eversione a Padova. Nonostante fosse in corso l’inchiesta del sostituto procuratore Calogero che aveva portato agli arresti del 7 aprile di quell’anno e che si concluderà con le condanne per gravi reati di numerosi appartenenti ai gruppi terroristi di Autonomia, Ventura, testimone importante e al centro delle minacce, non aveva alcuna protezione e doveva, come peraltro dimostrò di saper fare, difendersi da solo. Proprio il giorno prima dell’attentato Il quotidiano “La Repubblica” aveva indicato il professore come uno dei testimoni fondamentali dell’inchiesta padovana. Inoltre l’attentato venne classificato come reato di “lesioni personali” e venne estinto da una delle frequenti amnistie del tempo. Infatti, a differenza di chi sostiene che in Italia ci fosse una legislazione repressiva e liberticida, la prima legge che introdusse l’aggravante per finalità di terrorismo venne varata nel dicembre del 1979. Pertanto sparare a un testimone, che aveva ricevuto minacce e aggressioni da gruppi eversivi, non era considerato un reato di terrorismo ma semplici lesioni, come in una rissa violenta. Anche la legge sui collaboratori di giustizia fu successiva alle inchieste padovane e all’attentato e chi aveva il coraggio di testimoniare non aveva alcun beneficio, vantaggio o protezione. L’unico condannato direttamente per l’attentato a Ventura fu Giuseppe Zambon, dirigente di Autonomia e del Fronte comunista combattente, per avere in concorso con altri, detenuto e portato illegalmente in luogo pubblico la pistola utilizzata per sparare al professore. Solo anni dopo Michele Galati, un dirigente delle Br attivo in Veneto, ricostruì i rapporti tre Autonomia e Br per preparare e rivendicare l’attentato. Gli autori materiali delle “lesioni personali” restarono ignoti perché il reato fu estinto da un’amnistia (sentenza Corte d’assise di Pd 30.1.1986, confermata dalla Cassazione 11.10.1989).
Per comprendere l’analisi di Ventura sul terrorismo rosso risultano di eccezionale interesse i due interventi “Il problema storico del terrorismo italiano e La responsabilità degli intellettuali” e “Le radici culturali del terrorismo di sinistra”. I due testi sono stati ripubblicati di recente nel volume Per una storia del terrorismo italiano (Donzelli, Roma 2010) con una rigorosa e documentata prefazione di Carlo Fumian. Il primo intervento è datato 8 febbraio 1980, ed è la prolusione di Ventura in occasione dell’inaugurazione del 758° anno accademico dell’Ateneo alla presenza del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Quando il professore si alzò per iniziare a parlare Pertini andò ad abbracciarlo tra gli applausi convinti e commossi dei partecipanti. Il discorso prese in esame le principali tesi sulla genesi e gli obiettivi del terrorismo. La prima, sostenuta tra gli altri dal sociologo Franco Ferrarotti, considerava la lotta armata come espressione dell’emarginazione presente nella società. La tesi non reggeva perché tra i capi e i militanti dei gruppi eversivi c’erano intellettuali, tecnici, impiegati, studenti, operai delle grandi fabbriche e non emarginati. Inoltre nei paesi con maggiori fenomeni di emarginazione, ad esempio gli Stati Uniti, non era sorto un terrorismo paragonabile a quello italiano. La teoria del terrorismo come risposta a un sistema politico bloccato, sostenuta dallo storico Luigi Bonanate, poteva applicarsi ad altri paesi ma non all’Italia. Qui infatti il terrorismo era nato con le trame nere per bloccare il tentativo di riforme del centro sinistra ed era proseguito nella sua versione rossa per contrastare la prospettiva di cambiamento del compro- messo storico. Neanche la tesi, sostenuta da Sabino Acquaviva, docente di sociologia, che attribuiva alla «disgregazione del sistema dei valori precedenti» la causa dell’eversione era convincente. Infatti la crisi della religione, della famiglia, della morale era diffusa in tutte le società industriali ma solo in Italia aveva generato un terrorismo così violento e duraturo. La tesi del complotto, che vedeva l’eversione come strumento di centri di potere internazionali, era per Ventura riduttiva. C’erano invece interventi di apparati istituzionali, potenti e organizzati che utilizzavano il terrorismo. Secondo il professore padovano, per capire le origini dell’eversione bisognava partire dallo studio della sua organizzazione e della sua storia. Il metodo da seguire era semplice: per la storia contemporanea tutti i segreti erano stampati, bastava saperli cercare e volerli leggere. Nella storia del terrorismo si potevano distinguere tre fasi: le origini dal 1969 al 1972, l’aggregazione attorno all’asse Autonomia operaia-Brigate rosse dal 1973 al 1977, la ripresa del movimento e la contraddizione tra Br e Autonomia dal 1977 all’omicidio Moro. Dopo gli arresti del 7 aprile 1979 si era aperto un quarto periodo di crisi e fratture dell’eversione. Dopo l’autunno caldo del 1969 il disegno rivoluzionario degli intellettuali operaisti risultava sconfitto e impraticabile perché la supposta autonomia della classe operaia, intesa come contrapposizione con le forze storiche del movimento operaio, si era rivelata un’illusione ideologica. Da qui era nata l’esigenza di forzare la volontà delle masse da parte di una minoranza ed era nata la questione discriminante della violenza rivoluzionaria e quindi la necessità della «costruzione del partito dell’insurrezione», come scriveva Potere operaio nel dicembre 1970. La stessa organizzazione, nella conferenza nazionale dell’anno successivo, aveva lanciato la parola d’ordine «dell’insurrezione come chiave di volta per aprire il processo rivoluzionario» e aveva deliberato che il partito armato era immediatamente all’ordine del giorno. Si era così costituito l’apparato militare di Potere operaio che si era affiancato alle Br e ai gap di Feltrinelli. Nel fronte della lotta armata si era poi determinata una divisione del lavoro in cui le Br svolgevano le azioni terroristiche più impegnative che si accompagnavano al lavoro legale di massa di un’organizzazione parallela, costituita da Potere operaio e in seguito da Autonomia operaia, nella quale i documenti Br identificavano il Movimento proletario di resistenza offensiva. La distribuzione dei ruoli era stata collaudata per la prima volta nelle lotte operaie della Fiat tra il novembre 1972 e l’aprile 1973. Da una parte agiva l’organizzazione di massa che praticava appropriazioni, autoriduzioni, sabotaggi, pestaggi, lanci di molotov, cortei duri; dall’altra «il partito d’attacco» che «Negri in uno scritto del 1974 aveva definito brigate rosse dell’attacco operaio e proletario». Le varie componenti del partito armato si erano rapportate in modo sempre più unitario e stretto tra il 1973 e il 1977 e si erano poi distanziate dopo il delitto Moro che aveva provocato una rincorsa tra gruppi diversi. All’interno di questa dialettica Piperno (dirigente di Autonomia) aveva lanciato la «nota indicazione» di «coniugare insieme la terribile bellezza di quel 12 marzo del 1977 per le strade di Roma con la geometrica potenza dispiegata in via Fani». Nel 1979 si era scatenata una nuova offensiva con gli omicidi di Rossa e Alessandrini e si era intensificato il terrorismo diffuso di Autonomia fino all’inchiesta del sostituito procuratore Calogero che si era incuneata nel meccanismo eversivo e ne aveva sconvolto la trama. Gli ideologi di Potere operaio avevano sviluppato «sino alle conseguenze più radicali il nucleo teorico originariamente elaborato da Mario Tronti a metà degli anni Sessanta» e avevano compiuto il percorso che dal marxismo-leninismo conduceva al nichilismo, «dalla dialettica all’irrazionalismo, dalla critica del capitalismo al rifiuto della società industriale, dall’operaismo al populismo». Secondo queste teorie il processo di riproduzione e valorizzazione del capitale si estendeva dalla fabbrica all’intera società, la cosiddetta “fabbrica sociale”. Il capitale si identificava con lo Stato che diventava funzione del comando del capitale. Partiti e sindacati diventavano articolazioni dello Stato e strumenti di controllo della classe operaia per conto del capitale. La lotta di classe diventava così direttamente lotta contro lo Stato. L’antagonista radicale dello Stato del capitale era Autonomia operaia, l’espressione autonoma dei bisogni e della volontà di potere del proletariato. Questa concezione aveva un fondo irrazionalistico che emergeva in due passaggi fondamentali: «la riduzione della teoria a mero momento della prassi, della lotta di classe, e quindi la negazione radicale della dialettica e della ragione». Qui Ventura citava un saggio del 1965 di Tronti, ripubblicato nel volume Operai e capitale, dove si affermava che la cultura «è sempre borghese» in quanto mediazione degli antagonismi. «Se la cultura è ricostruzione della totalità dell’uomo, ricerca della sua umanità nel mondo, vocazione a tenere unito ciò che è diviso, allora è un fatto reazionario e come tale va trattato». Per Tronti occorreva «un lavoro di dissoluzione di tutto quanto già c’è, rifiuto di continuare a costruire sul solco di questo passato. L’Uomo, la Ragione, la Storia, queste mostruose divinità vanno combattute e distrutte, come fossero il potere del padrone». Secondo Ventura «l’infinita ironia della storia» aveva voluto che mentre le forze democratiche si mobilitavano contro il ritorno del fascismo, alle loro spalle erano emerse, mimetizzate nelle forme dell’ideologia marxista-leninista, le tendenze irrazionalistiche che avevano dato vita al fascismo storico.
Il secondo intervento è la relazione che Ventura svolse il 2 dicembre 1982 a Padova nel convegno Università, cultura, terrorismo, organizzato dalla Consulta per la difesa dell’ordine democratico, dall’Università e dal Comune. Il professore spiegò che per anni la sinistra aveva rimosso il terrorismo e aveva rifiutato di «ammettere l’autenticità dei gruppi terroristici di sinistra (gap, br, Faro di Potere operaio)». Questa grande «rimozione collettiva» si diffuse per cancellare la cattiva coscienza «di chi aveva irresponsabilmente fomentato il fanatismo ideologico e civettato con la violenza rivoluzionaria» e consentì ai gruppi eversivi di costruire il partito armato. A lungo numerosi intellettuali, professori universitari, docenti di scuola, giornalisti, scrittori avevano finto di non vedere la matrice rossa del terrorismo e avevano giustificato con superficiali tesi sociologiche l’uso della violenza. Ventura propose alcuni passaggi di un possibile percorso culturale, «disposto a cerchi concentrici», che aveva caratterizzato l’espansione del terrorismo. Un primo elemento era il «divorzio degli intellettuali dallo Stato» che era stato causato dall’avvento al potere nel dopoguerra di una classe dirigente di formazione cattolica. Nel movimento operaio e socialista era rimasta irrisolta la contraddizione tra politica riformistica e ideologia rivoluzionaria: «una contraddizione fatale, che provocava un perenne senso di frustrazione e di sfiducia, l’amarezza di tradire quotidianamente i propri ideali, e quindi, per reazione, la fuga nell’estremismo e nel più rigido e dogmatico radicalismo ideologico». Un’altra contraddizione era costituita dal contrasto «tra gli ideali evangelici che ispiravano tanti giovani intellettuali di formazione cattolica, e la pratica immobilistica, acquiescente verso i privilegi». Aveva influito l’esistenza di «opposizioni sleali e semi leali» che non accettavano il sistema democratico. Questi atteggiamenti avevano portato a definire i terroristi «compagni che sbagliano» e ad assumere, «sistematicamente e in maniera preconcetta», la difesa degli imputati di terrorismo. Inoltre nella comunità intellettuale italiana era radicata la tradizione «di un sapere libresco, astratto, e deduttivo» che si combinava con una «cultura fortemente ideologizzante, incline allo spirito sistematico e ai miti». Insomma in Italia, eccezione unica in Europa, c’era una cultura «che può crearsi miti come quello della rivoluzione culturale cinese, immaginare la rivoluzione sempre dietro l’angolo, e rimuovere con disinvoltura i fatti sgradevoli, contrastanti con i propri schemi ideologici». Il mondo intellettuale italiano era rimasto influenzato dalla tradizione retorica e spiritualistica, esaltata durante il fascismo e alimentata dall’idealismo, che aveva osteggiato ed escluso il positivismo, «disprezzava i fatti e s’inebriava in cambio di parole» avversando la scienza. Si era affermato «il passaggio dal concetto marxista di unità tra teoria e prassi alla riduzione della teoria a mera funzione della prassi, e quindi alla negazione della dialettica e della ragione». Ventura portò l’esempio di Mario Tronti che nel 1965 nella «bibbia dell’operaismo assoluto», Operai e capitale, aveva scritto che la cultura è sempre borghese in quanto mediazione degli antagonismi. In questa concezione, ripresa anche da Alberto Asor Rosa e da Negri, la ragione si annullava «nella assoluta autonomia della prassi, che è volontà di potenza illimitata, fondante la violenza»; la lotta politica cedeva il passo «ad una guerra senza legge, che ha per scopo la distruzione dell’avversario con ogni mezzo». Infine nella cultura italiana non era stata accettata la società industriale che era considerata un elemento negativo che aveva distrutto l’autentica e umana società contadina del passato.