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Legge sulla minoranza veneta spot giustamente cancellato

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Giovedì, 26 Aprile 2018 08:49

MATTINO DI PADOVA 26 APRILE 2018

La sentenza della Corte costituzionale n° 81 del 20 aprile 2018 ha annullato la legge regionale del Veneto n° 28 del 2016 e merita di essere studiata perché dimostra l'incapacità di chi governa la nostra regione. La legge del 2016 riconosceva il popolo veneto come minoranza nazionale in contrapposizione alla maggioranza nazionale italiana, e consentiva ai singoli cittadini di decidere se registrarsi come appartenenti alla minoranza veneta. Venivano introdotti privilegi immotivati per i veneti rispetto agli altri cittadini italiani residenti con una serie di strumenti discriminanti e costosi come la dichiarazione di appartenenza etnica, il patentino di bilinguismo, l'insegnamento del veneto nelle scuole, l'uso del veneto negli uffici pubblici e nella toponomastica. La Corte ha dichiarato incostituzionale la legge del 2016, argomentando che non è consentito alle Regioni configurare la propria comunità in quanto tale come minoranza "essendo del tutto evidente" che alle Regioni, come ai diversi enti territoriali, non può reputarsi automaticamente corrispondente una ripartizione del popolo, inteso come comunità generale, "in improbabili sue frazioni". In caso contrario si introdurrebbe "un elemento di frammentazione nella comunità nazionale contrario agli articoli 2, 3, 5 e 6 della Costituzione". Pertanto, conclude la Corte, qualificare il popolo veneto come minoranza nazionale contrasta con la Costituzione.

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Impennata di roghi nelle ditte dei rifiutiI timori dell’Antimafia: «Episodi legati». Decine di incendi negli ultimi anni. Naccarato: «Appiccati per intimorire i concorrenti»

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Mercoledì, 25 Aprile 2018 16:28

CORRIERE VENETO 25 APRILE 2018

Un grosso incendio è divampato nella serata di lunedì in un’azienda di smaltimento rifiuti speciali, la Se.fi Ambiente di San Donà di Piave. Le cause sono ancora al vaglio degli inquirenti ma le prime ipotesi parlano di un fenomeno di autocombustione. L’impressione, però, è che in Veneto chiunque infili le mani nel business delle ‘monnezze rischi grosso. Al punto che, nella relazione diffusa poche settimane fa, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle Mafie mette nero su bianco il fatto che «desta attenzione il ripetersi di incendi dolosi che hanno distrutto beni strumentali di varie aziende, in particolare nel settore dei rifiuti». Nella nostra regione i commissari hanno riscontrato, solo negli ultimi anni, 55 roghi in ditte collegate allo smaltimento. Ventisette ai danni di aziende del settore, ai quali si aggiungono quelli che, dal 2012 a oggi, hanno distrutto depositi, magazzini e camion usati per il trasporto del materiale. Come quello del 15 aprile a Povegliano, che ha mandato (letteralmente) in fumo il capannone della Sev 2.0 srl Industries. E qui l’ipotesi dolosa è una pista concreta. Sospetti pesanti anche sul rogo che nell’agosto scorso ha divorato tonnellate di plastica, eternit e reagenti chimici alla Vidori spa, nel Trevigiano. Il maggior numero di episodi è stato registrato nel Veronese, territorio che più di altri deve fare i conti con la presenza di esponenti di famiglie mafiose. Eppure il fenomeno coinvolge tutte le province, al punto che la prefettura di Treviso ha deciso di segnalare alla Direzione distrettuale antimafia di Venezia «tutti gli eventi incendiari riguardanti il ciclo di trattamento dei rifiuti». Insomma, il sospetto è che dietro questa strana catena di roghi che negli ultimi anni ha coinvolto le imprese che lavorano nel trattamento e nello smaltimento di scorie, ci sia (anche) lo zampino della criminalità organizzata. «Quello dei rifiuti è un business molto remunerativo - spiega Alessandro Naccarato, tra i componenti della Commissione - e quindi è evidente che le mafie cerchino di inserirsi. Alcuni dei roghi registrati in Veneto sono probabilmente collegati tra loro: dare fuoco ai depositi o ai macchinari può servire a indebolire il concorrente, intimorirlo, ma anche a comprometterne la chance di vittoria in una gara d’appalto». Incendi e non solo. Nella relazione 2016 di un’altra Commissione parlamentare d’inchiesta, quella sugli illeciti ambientali, si legge che la produzione di rifiuti urbani in Veneto supera le 2,2 milioni di tonnellate l’anno, 874mila quelle composte da scorie classificate come «pericolose». E numeri così muovono cifre da capogiro, con il rischio che qualcuno ci speculi. Nella nostra regione «il fenomeno non è episodico - si legge nel documento - in quanto si è in presenza di situazioni reiterate, sistematiche, tanto che alla fine si può configurare l’ipotesi di traffico illecito di rifiuti, quindi, di attività organizzate continuative connotate da finalità di profitto». Scoperta anche tutta una serie «di piccole aziende che dapprima erano floride ma che con la crisi hanno avuto grossi problemi e che (...) per cercare di superare le difficoltà, sono andate ben oltre la mera violazione delle autorizzazioni». È un errore credere che i «furbetti» agiscano nascosti, magari all’interno dei loro capannoni. Spesso, avviene tutto alla luce del sole. «Il settore delle opere pubbliche (in Veneto, ndr ) offre grandi opportunità per lo smaltimento illecito - prosegue la relazione sugli illeciti ambientali -in quanto, invece di sostenere i costi correlati allo smaltimento, addirittura si ottengono profitti laddove materiali che dovrebbero essere smaltiti come rifiuti, vengono trattati come materie prime e venduti (...) vi è un giro di fatture false, volte a occultare le operazioni di smaltimento illecito. Si tratta di una vera e propria tendenza, che è stata riscontrata in tanti casi, perché rappresenta una opportunità molto ghiotta». Che si tratti di incendi dolosi o di violazioni alle norme sullo smaltimento, resta che i controlli nelle aziende specializzate non sempre sono all’altezza. Già nel 2016 i commissari puntavano il dito contro «le gravi carenze dell’Arpav quanto allo svolgimento delle attività di controllo degli impianti autorizzati, di sopralluoghi, di analisi e di caratterizzazione dei siti inquinati (...) Si tratta - concludono i parlamentari - di un quadro generale di carenze strutturali e di personale».

l'ombra della mafia nella marca. Il boom dei soldi sospetti I dati Bankitalia: Treviso al vertice. Naccarato (Pd): le infiltrazioni passano dalle banche

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Sabato, 31 Marzo 2018 10:58

LA TRIBUNA DI TREVISO 31 MARZO 2018

Se sono i soldi, e non le pistole, l'arma usata dalla malavita per conquistare i territori del Norditalia e del Veneto, allora la lettura del resoconto della Banca d'Italia sulle operazioni finanziarie sospette fatte in tutta la regione negli ultimi nove anni diventa la prova che corrobora il sospetto che la malavita sia già qui, e da parecchio.A metterle i dati in fila è stato ieri Alessandro Naccarato, membro dell'ultima commissione parlamentare antimafia, specificando che «le organizzazioni mafiose approfittano di territori in cui sono frequenti i reati fiscali e dove i controlli da parte delle banche sono più laschi».Cita, non a caso, Veneto Banca e Popolare di Vicenza, ma anche le piccole realtà del credito cooperativo, «istituti dove è ormai chiaro che sono mancati controlli interni, o dove - è il caso delle banche più piccole - è più facile muoversi senza destare sospetti approfittando dell'orizzonte più ristretto delle comunità locali». Fatte queste premesse, parlano i numeri. Nel 2014, anno in cui PopVi e Veneto Banca pianificarono gli aumenti di capitale oggi sotto la lente di ingrandimento delle procure, le segnalazioni di operazioni sospette furono 923 a Vicenza e 954 a Treviso (nella Marca in netto aumento rispetto all'anno precedente). Era il padovano a destare maggiori dubbi con ben 1375 segnalazioni, 500 in più rispetto all'anno precedente. Ma nei due anni a venire, ovvero quando le due banche popolari vengono travolte dalla bufera giudiziaria, le segnalazioni trevigiane e vicentine si impennano portando Treviso a quota 1615 e Vicenza a 1474. Verona è il territorio dove sono più alte le operazioni sospette (1653), impennatesi anche qui dopo il "crollo" avvenuto nel 2013, «anno cui partì l'inchiesta Aemilia sulle infiltrazioni della 'ndragheta» sottolinea Naccarato. Solo un caso? «I soldi si muovono dove c'è maggiore fluidità e dove approfittano di minori controlli, dove si alza l'asticella del rischio, si allontanano», ribadisce. Nel primo semestre del 2017 Treviso poi è la provincia con maggiori segnalazioni.Quante di queste si traducono in una indagine? In quanti casi c'è una fondata irregolarità? Circa il 60%, che non è poco, e il Veneto è la quarta regione in Italia per ricorrenza di fenomeni di riciclaggio dopo Lombardia, Campania e Lazio.Se poi ai soldi aggiungiamo la pista dei roghi in aziende di rifiuti o di trasporto, e quella segnata dagli arresti seguiti alle inchieste dell'antimafia il sospetto tende a trovare certezza. «La prefettura di Treviso, in questo senso, si è mossa molto bene» plaude l'ex parlamentare. Nel mese di febbraio del 2017 il prefetto Laura Lega ha adottato 5 interdittive antimafia nei confronti di aziende riconducibili a un soggetto accusato di appartenere alla camorra. «Segnali chiari di risposta del territorio, confermati da Tar ve Consiglio di Stato», un dettaglio quest'ultimo che conferma la veridicità delle accuse e quindi dell'infiltrazione.«È il momento che Zaia batta un colpo sulla legalità, ammetta che il problema delle infiltrazioni mafiose esiste e giochi la partita per batterle» dice il segretario della Cgil di Treviso Giacomo Vendrame che ieri, presentando la relazione di Naccarato, ha sottolineato come il sindacato «avesse già evidenziato il problema quando altri lo sottovalutavano, e da tempo lavori per sensibilizzare anche gli studenti, oltre che imprenditori e classe dirigente». Secondo la relazione della commissione antimafia due fattori hanno favorito la presenza delle mafie in Veneto: il tessuto economico di piccole e medie imprese con una rete diffusa di istituti di credito; la posizione geografica al centro di importanti vie di comunicazione. Ora la domanda è una: siamo alla punta dell'iceberg, o il fenomeno è stato intercettato sul nascere?

LA TRIBUNA DI TREVISO 31 MARZO 2018

 

MAFIA DEL BRENTA. NACCARATO: "UN FENOMENO SOTTOVALUTATO. COSÌ HA PROLIFERATO IL MALAFFARE"

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Sabato, 17 Marzo 2018 12:20

MATTINO DI PADOVA 17 MARZO 2018

Per anni in Veneto ha operato la mafia del Brenta, un'associazione a delinquere di stampo mafioso, che ha commesso gravi reati. Il gruppo è stato in larga parte smantellato dalle forze dell'ordine e dall'autorità giudiziaria ed è stato processato e condannato in base all'articolo 416 bis del codice penale. Le sentenze a partire dal 1994 hanno stabilito in modo inequivocabile che la mafia del Brenta non era una semplice banda criminale: era una vera e propria associazione mafiosa, composta da assassini, rapinatori, trafficanti di droga e di armi, sequestratori, avvocati, imprenditori. Nonostante l'efficace azione repressiva della magistratura, il fenomeno è stato ampiamente sottovalutato a livello istituzionale e sociale senza cogliere la gravità dei reati e senza approfondire la rete di rapporti e connivenze che l'avevano fatto crescere. È indicativo il fatto che, a parte qualche rara eccezione, l'associazione mafiosa guidata da Felice Maniero venga ancora chiamata "mala del Brenta", "banda Maniero", "mala del piovese", senza mai utilizzare la parola mafia. In questo modo, negando l'esistenza di un gruppo mafioso veneto, si è prodotta una rimozione lessicale e culturale per evitare di indagare a fondo sulle responsabilità dell'area grigia, costituita da professionisti, avvocati, rappresentanti delle istituzioni, operatori di banca, che ha consentito alla mafia del Brenta di accumulare ingenti risorse in larga pare ancora da scoprire e sequestrare.

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POLITICHE 2018: UNA SCONFITTA DA ANALIZZARE PER NON RIPETERE GLI ERRORI

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Giovedì, 08 Marzo 2018 14:23

 

I dati elettorali devono essere studiati con attenzione per comprendere le scelte dei cittadini. Una forza politica che non si interroga sui risultati (positivi e negativi) delle elezioni, è destinata all’insuccesso. Purtroppo è il caso del nostro partito che, nonostante le recenti sconfitte, non ha mai voluto analizzare i risultati e ha preferito minimizzare i segnali di difficoltà e proseguire in una strategia autoreferenziale che ha inevitabilmente portato alla batosta di domenica 4 marzo. Questa volta si spera che il gruppo dirigente del Pd voglia prendere atto della pesante sconfitta e cercare di comprendere cosa è successo senza demonizzare o emarginare chi chiede un’analisi seria del risultato. Sul piano del metodo è utile analizzare i dati partendo dai numeri assoluti. Infatti i dati espressi in percentuale indicano dei rapporti che sono interessanti se riferiti alla propria forza ma diventano fuorvianti se riferiti all’intero bacino elettorale. Per portare un esempio evidente basta ricordare gli errori di analisi dopo il celebre 40% dei voti raccolti dal Pd alle elezioni europee del 2014. In realtà in quell’occasione il Pd raccolse 11.172.727 voti, quasi un milione in meno dei 12.095.306 delle elezioni politiche del 2008 e 800 mila in meno delle politiche del 2006. Nel 2008 i 12 milioni di voti valevano il 33%; nel 2014 gli 11 milioni di voti valevano il 40%. I 12 milioni del 2008 e gli 11 milioni e 900 mila del 2006 vennero interpretati come un risultato modesto. Gli 11 milioni e 100 mila del 2014 vennero giudicati come un trionfo assoluto. Non aver voluto capire che quel 40% rappresentava gli stessi elettori (in realtà un milione in meno) del 2008 e del 2006 ha contribuito a determinare una sorta di delirio di onnipotenza nei gruppi dirigenti che ha portato a un atteggiamento autoreferenziale e di chiusura verso i corpi intermedi e verso diversi settori sociali. Non a caso diversi analisti ritengono che il declino del Pd abbia avuto origine nell’incapacità di leggere il dato delle europee del 2014. Da allora Renzi e i numerosi dirigenti che l’hanno sempre assecondato e seguito in modo acritico hanno trasformato il Pd in un soggetto chiuso alla società, convinto di essere autosufficiente e in grado di superare i rapporti con i corpi intermedi.

Nonostante una azione positiva di governo da allora il Pd ha perso tutte le elezioni senza mai riflettere su quanto stava accadendo. E’ emblematica la vicenda del referendum costituzionale del dicembre 2016. Renzi dopo aver fatto una campagna basata sulla sua leadership e non sui contenuti (giusti e da rivendicare) della riforma in esame, si è dimesso da segretario per poi ripresentarsi e stravincere le primarie dopo pochi mesi. Questa decisione, accompagnata da atteggiamenti arroganti e offensivi verso chi poneva critiche e osservazioni e chiedeva di discutere, ha determinato l’abbandono e la delusione di molti elettori e iscritti, che non hanno seguito la scissione rancorosa e autodistruttiva di Bersani e altri, e che hanno perso la fiducia nel Pd. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il Pd ha perso migliaia di iscritti e milioni di elettori e si è trasformato in un soggetto sempre meno rilevante e chiuso alla società; il Pd in alcuni territori è diventato un comitato elettorale al servizio di amministratori locali o rappresentanti istituzionali. L’analisi seria del dato elettorale serve per cercare di salvare il futuro del Pd e per correggere gli errori con l’obiettivo di fermare la deriva di molti elettori e di rilanciare il progetto originale del Pd.

I numeri: A livello nazionale il Pd perde 2.511.307 voti: il 29% della propria forza. In base agli studi sui flussi il Pd perde voti al nord verso Lega e al centro sud verso 5 stelle. La perdita di voti verso Leu è molto contenuta: Leu prende quasi gli stessi voti di Sel nel 2013. Gli elettori che nel 2013 avevano scelto le liste di Monti scelgono prevalentemente i 5 stelle e il centro destra. Sul piano sociale l’elettorato del Pd si è ridotto ulteriormente e si concentra tra gli anziani con più di 65 anni in pensione con basso titolo di studio. Nelle altre categorie di lavoratori, in particolare tra liberi professionisti e lavoratori autonomi, il Pd arriva ultimo tra i grandi partiti e anche nel pubblico impiego perde il suo tradizionale primato. I giovani, in particolare la fascia tra i 18 e i 25 anni, hanno votato in prevalenza per i 5 stelle. Tra i giovani il Pd è l’ultimo tra i principali partiti. (si vedano di seguito gli studi Swg, Cattaneo e Pagnoncelli). In Veneto il Pd perde 151.141 voti: il 24% della sua già modesta forza. Poiché anche i 5 stelle perdono 79.977 voti e Leu prende pochi voti in più di Sel nel 2013, appare evidente che larga parte degli elettori in uscita dal Pd hanno scelto la Lega. Il dato dei collegi uninominali è indicativo: con l’eccezione delle città maggiori il centrosinistra è ormai la terza forza e in molte aree è sotto il 20%. In provincia di Padova il Pd perde 30.128 voti: il 24 % dei suoi pochi voti. L’andamento è simile a quello regionale. Come a livello nazionale e regionale nelle zone dove il Pd è più debole (molti comuni dell’alta padovana e alcune zone della bassa) il Pd perde meno perché ha già meno voti. Il Pd è ormai irrilevante in molti comuni della provincia, in particolare nei centri più piccoli. Lega e 5 stelle si sono radicati anche in territori dove fino alle scorse elezioni politiche il centrosinistra era maggioritario.

Dove vanno i voti del Pd del 2013: Il Pd ha un ridotto flusso in entrata dalle liste di Monti e diversi, consistenti flussi in uscita verso Lega e 5 stelle, più contenuti verso Leu. La fuga verso la Lega è molto evidente in Veneto e Lombardia dove ha influito la posizione del “sì critico” in occasione del recente referendum sull’autonomia. Infatti quella scelta ha sdoganato la proposta indipendentista della Lega e ha legittimato un giudizio positivo sulle giunte regionali leghiste. Alcuni elettori del Pd hanno votato sì al referendum e poi, alle elezioni politiche, hanno confermato il consenso verso le proposte leghiste: hanno scelto l’originale (la Lega) rispetto alla copia (il Pd). La dinamica è bene esplicitata dal voto alle elezioni regionali lombarde. Il candidato del Pd, Gori, ha condotto buona parte della campagna rincorrendo la Lega sul tema dell’autonomia e ha votato sì al referendum, convinto di sottrarre voti alla stessa Lega. Il risultato è stato opposto alle attese: la Lega è cresciuta, nonostante la rinuncia del governatore in carica Maroni, e Gori ha preso molti meno voti del precedente candidato di centrosinistra. A questo elemento in Veneto si deve aggiungere l’assoluta assenza dell’opposizione del Pd in consiglio regionale. Zaia governa senza problemi e senza essere contrastato in modo significativo; non esistono iniziative o proposte alternative del Pd. Tale situazione ha rafforzato il ruolo di Zaia e della Lega e ha ridotto il Pd a un ruolo subalterno alla maggioranza e ai 5 stelle. L’irrilevanza e la marginalità del Pd in Veneto aiutano a spiegare lo spostamento di nostri elettori verso la Lega.

Nel comune di Padova il Pd perde 8.303 voti, il 23,5% del proprio consenso. Anche qui l’andamento è simile a quello regionale. I 5 stelle perdono 3.303 voti; Forza Italia perde 9.777 voti. Lega cresce di 18.475 voti; fratelli d’Italia di 2.919 voti. Leu prende 5.846 voti rispetto ai 4.665 che aveva Sel. Incrociando questi dati con gli studi sui flussi elettorali appare chiaro che larga parte dei voti del Pd del 2013 si sposta verso la Lega e una parte molto ridotta si sposta verso Leu. Inoltre il Pd non attrae nuovi voti né da Sel né dalle liste di centro che nel 2013 avevano sostenuto Monti. Il tentativo di Renzi di collocare il Pd al centro dello schieramento politico e di intercettare il voto moderato e centrista è fallito. In città il dato conferma la tendenza in atto dal 2010: il Pd perde consensi nelle zone periferiche e tra i ceti più deboli e concentra i voti nelle zone residenziali centrali e tra i ceti con redditi (comprese le pensioni) più elevati e tra i dipendenti pubblici. Al contrario Lega cresce e si radica sempre di più nelle zone periferiche e tra i ceti popolari. Il dato della candidata Lazzarini (superiore a quello di Bitonci del I turno 2017) indica che la Lega è presente in modo stabile in città e che ha conquistato un consenso ideologico crescente, soprattutto a scapito del elettorato in passato di sinistra. Il candidato Verlato non riesce a raccogliere il consenso dei candidati Giordani e Lorenzoni al I turno del 2017 (circa 13.366 voti in meno). A spiegare questa differenza non basta il voto a Leu (5.846 voti). Appare evidente che una parte degli elettori di Giordani e Lorenzoni non hanno votato Verlato e hanno preferito Lega e 5 stelle. Il dato merita di essere analizzato con attenzione per comprendere come consolidare l’esperienza amministrativa in corso e come recuperare al centrosinistra i voti persi.

Adesso? Dopo una sconfitta così pesante"renzi deve dimettersi ed è necessario aprire una riflessione su cosa fare per tornare al progetto originale del pd. Non servono primarie più o meno plebiscitarie o congressi senza dibattito come l’ultimo; non servono conte interne. Il nostro problema non è il leader. Renzi e la sua finta rottamazione hanno già prodotto danni gravi, forse irrecuperabili. Bisogna aprire il pd e avviare un percorso per ricostruire identità e programmi per una sinistra riformista. Per farlo bisogna essere umili e disponibili ad ascoltare critiche e osservazioni di chi ha scelto di non votarci e dei settori sociali che ci hanno abbandonato. L’esatto contrario di quanto è stato fatto dai nostri gruppi dirigenti. Il punto di partenza è un’analisi rigorosa dei dati elettorali. Analisi del voto</a></p>"

Pd, i pentiti del renzismo e la sferza di Naccarato

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Mercoledì, 07 Marzo 2018 10:24

MATTINO DI PADOVA 7 MARZO 2018

Colpisce, nel disastro elettorale dem, la tendenza del gruppo dirigente a eludere l'impietoso messaggio delle cifre, imputando la responsabilità della sconfitta - di volta in volta - al vento populista e xenofobo, alla misconoscenza del contributo assicurato dal centrosinistra alla ripresa del Paese, all'arroganza respingente di Matteo Renzi, a un dazio ingiustamente versato al disagio sociale persistente. E allora, con l'ausilio di Alessandro Naccarato - un veterano parlamentare vicino ad Andrea Orlando che non ha smarrito l'abitudine di distinguere i fatti dalle opinioni - ricapitoliamo la recente dinamica elettorale e i numeri (arrotondati) a cascata, che documentano l'erosione progressiva e incessante dei consensi democratici.Con un'avvertenza iniziale, riguardante il fatidico 40% centrato dal Pd alle europee del 2014: «Un'illusione ottica, determinata dall'astensione che ha pressoché dimezzato i votanti, gonfiando una percentuale destinata a svanire allorché l'affluenza elettorale è tornata a quote fisiologiche». Il raffronto probante, allora, investe le politiche del 2013 allorché il partito bersaniano raccolse circa 8,6 milioni di consensi, crollati a 6,1 nelle urne del 3 marzo, mentre in Veneto la flessione si attesta sui 150 mila voti (da 628 a 477 mila).E nel Padovano? In ambito provinciale i 124 mila elettori calano a 94 mila, nella città di Padova la perdita è più contenuta sul piano percentuale ma tutt'altro che trascurabile: da 35 circa a 27 mila voti, un'emorragia pari a un quarto della dote precedente.

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