ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: PERCHE' IL PD E' ENTRATO IN CRISI
Quanto è accaduto durante l’elezione del Presidente della Repubblica mette in discussione il ruolo e l’esistenza del Partito Democratico. Il PD entra in crisi per due motivi fondamentali: la pulsione autodistruttiva e suicida della retorica della rottamazione e del nuovismo fini a se stessi; la totale assenza di senso di responsabilità e di rispetto delle regole di molti dirigenti e di molti parlamentari. Se questo è il cambiamento conviene fermarsi a riflettere e recuperare le migliori esperienze del passato. 7 anni fa Napolitano venne eletto, con equilibri parlamentari simili a quelli odierni, con il voto del centrosinistra. Venne eletto tra mille critiche e malumori e fu una scelta giusta. Ds e margherita, dopo aver cercato l’intesa con tutte le forze politiche, individuarono un candidato che – basta rileggere le cronache dell’epoca – era contestatissimo tra i grani elettori e nell’opinione pubblica e lo sostennero fino in fondo. Questa volta il Pd ha implorato Napolitano di accettare un nuovo mandato per evitare il disastro completo.
Premessa L’Italia è una Repubblica parlamentare; il Presidente non è eletto dai cittadini ma dal Parlamento. L’articolo 83 della Costituzione stabilisce che il Presidente è eletto dai grandi elettori (deputati, senatori e rappresentanti delle Regioni) con la maggioranza dei 2/3 (672). Se questa non viene raggiunta dalla IV votazione serve la maggioranza assoluta (504). E’ prevista una maggioranza così larga perché il presidente (articolo 87 della Costituzione) “rappresenta l’unità nazionale”.
I numeri Alle elezioni il centrosinistra ha avuto il 30%, il centrodestra pochi voi in meno, il movimento 5 stelle il 25%, la lista Monti il 10%. Tra i 1007 grandi elettori la suddivisione è la seguente: Pd 427, sel 45, svp 9, psi 6, centro democratico (tabacci) 5, autonomisti 7, pdl 211, lega 40, fratelli d’italia 9, vari centrodestra 12, movimento 5 stelle 163, lista Monti 70, senatori a vita indipendenti 3. Dunque, posto che centrodestra e Monti hanno escluso qualsiasi intesa con Grillo, per raggiungere i 2/3 (672) serve un accordo almeno tra Pd, Pdl e Monti. Inoltre il centrosinistra da solo non ha la maggioranza assoluta (504) richiesta dopo il IV scrutinio.
Le regole del centrosinistra e del Pd In occasione delle primarie di novembre 2012 il centrosinistra e il Pd hanno stipulato un accordo, la Carta d’intenti, che è stato sottoscritto dai 3 milioni e 200 mila partecipanti al voto. L’ultimo capitolo, intitolato “Responsabilità”, prevede due regole fondamentali: sostenere in modo leale e per l’intero arco della legislatura l’azione del premier scelto con le primarie; vincolare la risoluzione di controversie a una votazione a maggioranza qualificata dei gruppi parlamentai convocati in seduta congiunta. E’ evidente che la prima regola è stata violata in modo sistematico da Renzi con i ripetuti attacchi distruttivi contro Bersani e contro le decisioni del gruppo dirigente del Pd e che la seconda regola è stata violata da Sel, dai parlamentari del Pd che hanno votato in aula contro Marini, da quelli che hanno votato contro Prodi e da quelli che hanno votato per Rodotà.
I fatti Il 9 aprile i gruppi parlamentari del centrosinistra votano all’unanimità il mandato a Bersani, leader della coalizione, e ai capigruppo di Camera e Senato di cercare un’intesa per individuare un candidato in grado di raccogliere i 2/3 dei voti previsti dalla Costituzione fin dal primo scrutinio. Questo comporta un’intesa almeno con Pdl e Lista Monti. Il movimento 5 stelle infatti decide di individuare il candidato attraverso il voto informatico dei propri iscritti. Con questo metodo vengono scelti nell’ordine di consensi Milena Gabanelli, che rifiuta, Gino Strada, che rifiuta e, terzo, Stefano Rodotà, che accetta. Pdl e Monti individuano una terna di nomi del Pd su cui poter convergere: Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Franco Marini. Il 17 aprile i gruppi parlamentari del centrosinistra votano a maggioranza di sostenere Marini. Sel non partecipa la voto, rompendo così in modo unilaterale l’accordo elettorale sottoscritto alle primarie. Anche i parlamentari sedicenti “renziani” non partecipano al voto. Sulla proposta Marini ci sono 220 favorevoli, 90 contrari e 30 astenuti. Mentre è in corso la riunione Renzi, nel corso di una trasmissione televisiva, dichiara che la candidatura di Marini “è un dispetto agli italiani”. Sel decide di appoggiare Rodotà. Il 18 aprile Marini raccoglie 521 voti favorevoli: ci sono almeno 180-200 parlamentari del Pd che non lo votano in contrasto con la decisione del gruppo. Alcuni lo dichiarano pubblicamente sostenendo di avere votato Rodotà o scheda bianca (Moretti, Puppato, Burlando, molti “renziani”, molti giovani). Prima del voto i parlamentari del Pd vengono inondati di mail di presunti elettori del partito a favore di Rodotà e contro Marini. Durante e subito dopo il voto inoltre pochi giovani del Pd occupano le sedi provinciali del partito in alcuni Comuni per protestare contro la candidatura di Marini che avrebbe favorito un governo di larghe intese con il Pdl. Il 19 aprile, vista l’impossibilità di eleggere un candidato con i 2/3 dei voti, Bersani propone all’assemblea dei gruppi del Pd di sostenere Romano Prodi dal IV scrutinio quando basta la maggioranza semplice di 504 voti. L’assemblea approva all’unanimità. Da notare che alla riunione non partecipa Sel che, dopo le divisioni del giorno prima, ha di fatto rotto l’alleanza elettorale. Alla IV votazione Prodi ottiene 395 voti e Rodotà 213. Almeno 100 parlamentati del centrosinistra (di cui almeno 60 del Pd) non hanno votato Prodi. Nella notte Bersani riunisce i gruppi e annuncia le proprie dimissioni, che saranno efficaci subito dopo l’elezione del Presidente della Repubblica. L’assemblea dà mandato al segretario e ai capigruppo di cercare un’intesa con gli altri gruppi su un candidato in grado di raggiungere il massimo consenso. Il 20 aprile, dopo che al V scrutinio il Pd ha votato scheda bianca, Pd, Pdl, Lega e lista Monti chiedono al Presidente Napolitano la disponibilità a essere rieletto. Il Presidente, dopo aver consultato i gruppi parlamentari e i presidenti regionali accetta. Al VI scrutinio Napoletano è eletto con 738 voti; il movimento 5 stelle e Sel votano Rodotà. Grillo definisce l’elezione di Napolitano un colpo di Stato e indice una immediata manifestazione popolare di protesta a Roma davanti al Parlamento. La manifestazione si svolge il giorno successivo. Il 22 aprile il Presidente Napolitano giura di fronte al Parlamento, richiama i parlamentari ai loro doveri istituzionali e prefigura la nascita di un governo sostenuto da Pd, Pdl, Lega e Monti con il programma delineato dai 10 saggi e in continuità con il lavoro avviato dall'esecutivo in carica.
Considerazioni 1. L’iniziativa di Renzi (interviste in televisione e voto contrario in aula dei sedicenti parlamentari “renziani”) per bocciare la candidatura di Marini ha violato le regole fondamentali della Carta d’intenti dell’alleanza di centrosinistra e del Pd e ha innescato la catena di eventi che ha portato alle dimissioni di Bersani e alla crisi del Pd. Si è così realizzato un ulteriore pezzo del progetto di rottamazione lanciato da Renzi. 2. Alla prima prova Sel ha rotto in modo unilaterale l’alleanza di centrosinistra perché non ha rispettato l’accordo di coalizione che prevede il voto a maggioranza dei gruppi parlamentari per definire le controversie. Sel, rifiutandosi di partecipare al voto dei gruppi, ha rotto il patto stipulato in occasione delle primarie. In questo modo il centrosinistra ha dimostrato per l’ennesima volta di non essere in grado di stare unito e ha perso credibilità. 3. La stessa regola è stata violata dai parlamentari del Pd che, in contrasto con la decisione dei gruppi, non hanno votato Marini al I scrutinio e da quelli che non hanno votato Prodi al IV. In questo modo il Pd si è diviso, ha perso credibilità ed è diventato ingovernabile. I franchi tiratori contro Marini hanno favorito il ripetersi del fenomeno contro Prodi. Infatti quando si rompono le regole una prima volta nessuno è più grado di farle rispettare le volte seguenti. La cosa è aggravata dal fatto che molti parlamentari si sono pubblicamente vantati di avere votato in modo diverso dalle decisioni del gruppo nel più assoluto disprezzo delle regole. 4. Questi voti in contrasto con le decisioni dei gruppi sono stati causati da 2 fattori: la perdita di autonomia culturale e politica di molti dirigenti e parlamentari del Pd che si fanno condizionare ed etero-dirigere dall’opinione pubblica, e, in particolare, dai sostenitori del movimento 5 stelle; l’azione costante di parti di gruppo dirigente del Pd (Renzi, Civati, Puppato) per indebolire Bersani. La dialettica interna è legittima e utile ma diventa distruttiva, come nel caso in questione, quando coincide con il sistematico attacco a qualsiasi iniziativa del segretario. In particolare Renzi, dopo aver perso le primarie, ha criticato Bersani su tutto aizzando una polemica autolesionista. A questi interventi si è aggiunta una critica prepolitica, alimentata da molti gruppi dirigenti a tutti i livelli, simile alle posizioni del movimento 5 stelle, contro ogni proposta di alleanze. Sono emblematiche le occupazioni delle sedi del Pd da parte di qualche (poche unità) giovane per protestare contro la decisione di sostenere Marini al I scrutinio perché avrebbe favorito un governo di larghe intese. Tali occupazioni si sono svolte solo a fini mediatici e hanno utilizzato slogan rubati ai movimenti antisistema: “occupy”, ecc. Le intese, componenti non esclusive ma essenziali di qualsiasi progetto politico, rischiano così di diventare una parolaccia. Altrettanto emblematica è la partecipazione di qualche militante del Pd (poche unità) alle manifestazioni (anche queste con adesioni scarsissime) di Sel a sostegno della candidatura di Rodotà. E’ evidente l’assoluta subalternità alle posizioni del movimento 5 stelle che ha scelto con modalità oscure e antidemocratiche un proprio candidato per dividere il centrosinistra e il Pd. Per comprendere la strumentalità dell’operazione basta avere la pazienza di leggere cosa scriveva appena un anno e mezzo fa Grillo su Rodotà, definito, insieme ad Amato e altri, un “maledetto” super privilegiato, peggior esempio della casta politica da abbattere, per le molteplici pensioni d’oro che percepisce per le numerose legislature svolte al Parlamento nazionale (4), Europeo (1) e presso una della più inutili Authority esistenti, quella sulla privacy. 5.Le bocciature di Marini e di Prodi e l’elezione di Napolitano favoriscono la nascita di un governo sostenuto da Pd, Pdl, Monti e Lega con un programma simile a quello proposto dai 10 saggi nei giorni scorsi. Vedremo a breve come si comporterà il Pd di fronte al voto di fiducia (questa volta palese) sul nuovo Esecutivo e speriamo che sia l’occasione per superare le ambiguità che si sono viste finora. Per ora è evidente che chi ha votato contro Marini per impedire le intese con Pdl e Monti in realtà le ha favorite; chi ha votato contro Prodi ha determinato la distruzione del gruppo dirigente del Pd e ha contribuito a ridurre la nostra credibilità; chi ha votato per Rodotà ha favorito il movimento di Grillo che ha come principale obiettivo la fine del Pd e il fallimento del Paese.
IL DISCORSO DI INSEDIAMENTO DI GIORGIO NAPOLITANO
Signora presidente, onorevoli deputati, onorevoli senatori, signori delegati delle regioni,
Lasciatemi innanzitutto esprimere – insieme con un omaggio che in me viene da molto lontano alle istituzioni che voi rappresentate – la gratitudine che vi debbo per avermi con così largo suffragio eletto Presidente della Repubblica. È un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso, anche se sottopone a seria prova le mie forze: e apprezzo in modo particolare che mi sia venuto da tante e tanti nuovi eletti in Parlamento, che appartengono a una generazione così distante, e non solo anagraficamente, dalla mia.
So che in tutto ciò si è riflesso qualcosa che mi tocca ancora più profondamente: e cioè la fiducia e l’affetto che ho visto in questi anni crescere verso di me e verso l’istituzione che rappresentavo tra grandi masse di cittadini, di italiani – uomini e donne di ogni età e di ogni regione – a cominciare da quanti ho incontrato nelle strade, nelle piazze, nei più diversi ambiti sociali e culturali, per rivivere insieme il farsi della nostra unità nazionale.
Come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da Presidente della Repubblica.
Avevo già nello scorso dicembre pubblicamente dichiarato di condividere l’autorevole convinzione che la non rielezione, al termine del settennato, è “l’alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica”. Avevo egualmente messo l’accento sull’esigenza di dare un segno di normalità e continuità istituzionale con una naturale successione nell’incarico di Capo dello Stato.
A queste ragioni e a quelle più strettamente personali, legate all’ovvio dato dell’età, se ne sono infine sovrapposte altre, rappresentatemi – dopo l’esito nullo di cinque votazioni in quest’aula di Montecitorio, in un clima sempre più teso – dagli esponenti di un ampio arco di forze parlamentari e dalla quasi totalità dei Presidenti delle Regioni. Ed è vero che questi mi sono apparsi particolarmente sensibili alle incognite che possono percepirsi al livello delle istituzioni locali, maggiormente vicine ai cittadini, benché ora alle prese con pesanti ombre di corruzione e di lassismo. Istituzioni che ascolto e rispetto, Signori delegati delle Regioni, in quanto portatrici di una visione non accentratrice dello Stato, già presente nel Risorgimento e da perseguire finalmente con serietà e coerenza.
È emerso da tali incontri, nella mattinata di sabato, un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento in seduta comune nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezione del Capo dello Stato. Di qui l’appello che ho ritenuto di non poter declinare – per quanto potesse costarmi l’accoglierlo – mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del paese.
La rielezione, per un secondo mandato, del Presidente uscente, non si era mai verificata nella storia della Repubblica, pur non essendo esclusa dal dettato costituzionale, che in questo senso aveva lasciato – come si è significativamente notato – “schiusa una finestra per tempi eccezionali”.
Ci siamo dunque ritrovati insieme in una scelta pienamente legittima, ma eccezionale. Perché senza precedenti è apparso il rischio che ho appena richiamato: senza precedenti e tanto più grave nella condizione di acuta difficoltà e perfino di emergenza che l’Italia sta vivendo in un contesto europeo e internazionale assai critico e per noi sempre più stringente.
Bisognava dunque offrire, al paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi: passando di qui una ritrovata fiducia in noi stessi e una rinnovata apertura di fiducia internazionale verso l’Italia.
È a questa prova che non mi sono sottratto. Ma sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità. Ne propongo una rapida sintesi, una sommaria rassegna. Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale – non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento.
Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica è stato dunque facilmente ignorato o svalutato: e l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento, sono state con facilità (ma anche con molta leggerezza) alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono. Attenzione: quest’ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme.
Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005.
Ancora pochi giorni fa, il Presidente Gallo ha dovuto ricordare come sia rimasta ignorata la raccomandazione della Corte Costituzionale a rivedere in particolare la norma relativa all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi.
La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovrarappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti.
Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario.
Molto si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui, perché su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale. Ma ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese.
Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana.
Parlando a Rimini a una grande assemblea di giovani nell’agosto 2011, volli rendere esplicito il filo ispiratore delle celebrazioni del 150° della nascita del nostro Stato unitario: l’impegno a trasmettere piena coscienza di “quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato”, e delle “grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo”.
E aggiunsi di aver voluto così suscitare orgoglio e fiducia “perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto. Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo bagaglio di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile”.
Ecco, posso ripetere quelle parole di un anno e mezzo fa, sia per sollecitare tutti a parlare il linguaggio della verità – fuori di ogni banale distinzione e disputa tra pessimisti e ottimisti – sia per introdurre il discorso su un insieme di obbiettivi in materia di riforme istituzionali e di proposte per l’avvio di un nuovo sviluppo economico, più equo e sostenibile.
È un discorso che – anche per ovvie ragioni di misura di questo mio messaggio – posso solo rinviare ai documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo scorso. Documenti di cui non si può negare – se non per gusto di polemica intellettuale – la serietà e concretezza. Anche perché essi hanno alle spalle elaborazioni sistematiche non solo delle istituzioni in cui operano i componenti dei due gruppi, ma anche di altre istituzioni e associazioni qualificate. Se poi si ritiene che molte delle indicazioni contenute in quei testi fossero già acquisite, vuol dire che è tempo di passare, in sede politica, ai fatti; se si nota che, specie in materia istituzionale, sono state lasciate aperte diverse opzioni su varii temi, vuol dire che è tempo di fare delle scelte conclusive. E si può, naturalmente, andare anche oltre, se si vuole, con il contributo di tutti.
Vorrei solo formulare, a commento, due osservazioni. La prima riguarda la necessità che al perseguimento di obbiettivi essenziali di riforma dei canali di partecipazione democratica e dei partiti politici, e di riforma delle istituzioni rappresentative, dei rapporti tra Parlamento e governo, tra Stato e Regioni, si associ una forte attenzione per il rafforzamento e rinnovamento degli organi e dei poteri dello Stato. A questi sono stato molto vicino negli ultimi sette anni, e non occorre perciò che rinnovi oggi un formale omaggio, si tratti di forze armate o di forze dell’ordine, della magistratura o di quella Corte che è suprema garanzia di costituzionalità delle leggi.
Occorre grande attenzione di fronte a esigenze di tutela della libertà e della sicurezza da nuove articolazioni criminali e da nuove pulsioni eversive, e anche di fronte a fenomeni di tensione e disordine nei rapporti tra diversi poteri dello Stato e diverse istituzioni costituzionalmente rilevanti.
Né si trascuri di reagire a disinformazioni e polemiche che colpiscono lo strumento militare, giustamente avviato a una seria riforma, ma sempre posto, nello spirito della Costituzione, a presidio della partecipazione italiana – anche col generoso sacrificio di non pochi nostri ragazzi – alle missioni di stabilizzazione e di pace della comunità internazionale.
La seconda osservazione riguarda il valore delle proposte ampiamente sviluppate nel documento da me già citato, per “affrontare la recessione e cogliere le opportunità” che ci si presentano, per “influire sulle prossime opzioni dell’Unione europea”, “per creare e sostenere il lavoro”, “per potenziare l’istruzione e il capitale umano, per favorire la ricerca, l’innovazione e la crescita delle imprese”.
Nel sottolineare questi ultimi punti, osservo che su di essi mi sono fortemente impegnato in ogni sede istituzionale e occasione di confronto, e continuerò a farlo. Essi sono nodi essenziali al fine di qualificare il nostro rinnovato e irrinunciabile impegno a far progredire l’Europa unita, contribuendo a definirne e rispettarne i vincoli di sostenibilità finanziaria e stabilità monetaria, e insieme a rilanciarne il dinamismo e lo spirito di solidarietà, a coglierne al meglio gli insostituibili stimoli e benefici.
E sono anche i nodi – innanzitutto, di fronte a un angoscioso crescere della disoccupazione, quelli della creazione di lavoro e della qualità delle occasioni di lavoro – attorno a cui ruota la grande questione sociale che ormai si impone all’ordine del giorno in Italia e in Europa. È la questione della prospettiva di futuro per un’intera generazione, è la questione di un’effettiva e piena valorizzazione delle risorse e delle energie femminili.
Non possiamo restare indifferenti dinanzi a costruttori di impresa e lavoratori che giungono a gesti disperati, a giovani che si perdono, a donne che vivono come inaccettabile la loro emarginazione o subalternità.
Volere il cambiamento, ciascuno interpretando a suo modo i consensi espressi dagli elettori, dice poco e non porta lontano se non ci si misura su problemi come quelli che ho citato e che sono stati di recente puntualizzati in modo obbiettivo, in modo non partigiano. Misurarsi su quei problemi perché diventino programma di azione del governo che deve nascere e oggetti di deliberazione del Parlamento che sta avviando la sua attività. E perché diventino fulcro di nuovi comportamenti collettivi, da parte di forze – in primo luogo nel mondo del lavoro e dell’impresa – che “appaiono bloccate, impaurite, arroccate in difesa e a disagio di fronte all’innovazione che è invece il motore dello sviluppo”.
Occorre un’apertura nuova, un nuovo slancio nella società; occorre un colpo di reni, nel Mezzogiorno stesso, per sollevare il Mezzogiorno da una spirale di arretramento e impoverimento.
Il Parlamento ha di recente deliberato addirittura all’unanimità il suo contributo su provvedimenti urgenti che al governo Monti ancora in carica toccava adottare, e che esso ha adottato, nel solco di uno sforzo di politica economico-finanziaria ed europea che meriterà certamente un giudizio più equanime, quanto più si allontanerà il clima dello scontro elettorale e si trarrà il bilancio del ruolo acquisito nel corso del 2012 in seno all’Unione europea.
Apprezzo l’impegno con cui il movimento largamente premiato dal corpo elettorale come nuovo attore politico-parlamentare ha mostrato di volersi impegnare alla Camera e al Senato, guadagnandovi il peso e l’influenza che gli spetta: quella è la strada di una feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento. Non può, d’altronde, reggere e dare frutti neppure una contrapposizione tra Rete e forme di organizzazione politica quali storicamente sono da ben più di un secolo e ovunque i partiti.
La rete fornisce accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all’aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma non c’è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all’imperativo costituzionale del “metodo democratico”.
Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono comunque dare ora – nella fase cruciale che l’Italia e l’Europa attraversano – il loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del paese. Senza temere di convergere su delle soluzioni, dal momento che di recente nelle due Camere non si è temuto di votare all’unanimità. Sentendo voi tutti – onorevoli deputati e senatori – di far parte dell’istituzione parlamentare non come esponenti di una fazione ma come depositari della volontà popolare. C’è da lavorare concretamente, con pazienza e spirito costruttivo, spendendo e acquisendo competenze, innanzitutto nelle Commissioni di Camera e Senato.
Permettete che ve lo dica uno che entrò qui da deputato all’età di 28 anni e portò giorno per giorno la sua pietra allo sviluppo della vita politica democratica.
Lavorare in Parlamento sui problemi scottanti del paese non è possibile se non nel confronto con un governo come interlocutore essenziale sia della maggioranza sia dell’opposizione. A 56 giorni dalle elezioni del 24-25 febbraio – dopo che ci si è dovuti dedicare all’elezione del Capo dello Stato – si deve senza indugio procedere alla formazione dell’esecutivo. Non corriamo dietro alle formule o alle definizioni di cui si chiacchiera.
Al Presidente non tocca dare mandati, per la formazione del governo, che siano vincolati a qualsiasi prescrizione se non quella voluta dall’art. 94 della Costituzione: un governo che abbia la fiducia delle due Camere. Ad esso spetta darsi un programma, secondo le priorità e la prospettiva temporale che riterrà opportune.
E la condizione è dunque una sola: fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto, sapendo quali prove aspettino il governo e quali siano le esigenze e l’interesse generale del paese. Sulla base dei risultati elettorali – di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no – non c’è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze.
Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto – se si preferisce questa espressione – si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale.
D’altronde, non c’è oggi in Europa nessun paese di consolidata tradizione democratica governato da un solo partito – nemmeno più il Regno Unito – operando dovunque governi formati o almeno sostenuti da più partiti, tra loro affini o abitualmente distanti e perfino aspramente concorrenti.
Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti.
Lo dicevo già sette anni fa in quest’aula, nella medesima occasione di oggi, auspicando che fosse finalmente vicino “il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza”: che significa anche il tempo della maturità per la ricerca di soluzioni di governo condivise quando se ne imponga la necessità. Altrimenti, si dovrebbe prendere atto dell’ingovernabilità, almeno nella legislatura appena iniziata.
Ma non è per prendere atto di questo che ho accolto l’invito a prestare di nuovo giuramento come Presidente della Repubblica. L’ho accolto anche perché l’Italia si desse nei prossimi giorni il governo di cui ha bisogno. E farò a tal fine ciò che mi compete: non andando oltre i limiti del mio ruolo costituzionale, fungendo tutt’al più, per usare un’espressione di scuola, “da fattore di coagulazione”. Ma tutte le forze politiche si prendano con realismo le loro responsabilità: era questa la posta implicita dell’appello rivoltomi due giorni or sono.
Mi accingo al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione “salvifica” delle mie funzioni; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno. Inizia oggi per me questo non previsto ulteriore impegno pubblico in una fase di vita già molto avanzata; inizia per voi un lungo cammino da percorrere, con passione, con rigore, con umiltà.
Non vi mancherà il mio incitamento e il mio augurio.
Viva il Parlamento! Viva la Repubblica! Viva l’Italia!
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