SULL'ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Da oggi pomeriggio iniziano le votazioni per eleggere il Presidente della Repubblica ed è utile fissare alcuni punti fermi per prevenire il disastro del 2013. In quell'occasione le divisioni e i giochi al massacro interni al PD e alla coalizione di centrosinistra provocarono quattro effetti:
- la bocciatura dei due candidati, scelti dall'assemblea dei parlamentari, Marini e Prodi; - le dimissioni del segretario Bersani; - la rielezione di Napolitano; - la nascita di un governo di larghe intese.
Senza dover ripetere nei particolari le cronache di allora, è importante ricordare alcuni errori che determinarono la crisi del PD e la paralisi istituzionale:
1) l'assemblea dei grandi elettori della coalizione di centro sinistra si riunì e il segretario bersani propose la candidatura di Franco Marini. Di fronte alla proposta Sel abbandonò la riunione e la coalizione decidendo di votare Rodotà. Renzi, allora capo della minoranza del PD, definì la candidatura di Marini “un dispetto agli italiani” e i parlamentari a lui vicini abbandonarono la riunione. L'assemblea dei grandi elettori approvo la candidatura di marini con 220 favorevoli 90 contrari e 30 astenuti; 2) Il giorno successivo Marini non raccolse i voti sufficienti all'elezione; 3) I grandi elettori si riunirono nuovamente e il segretario Bersani propose la candidatura di Prodi; 4) Nelle votazioni in aula Prodi non raccolsi voti necessari all'elezione. Nacque cosi la nota vicenda dei "101"; 5) Bersani si dimise da segretario; 6) Naoplitano fu rieletto Presidente; 7) nacque il governo di larghe intese presieduto Letta e sostenuto dal PDL; 8) Renzi iniziò la campagna per sostituire Bersani alla guida del PD; 9) nei mesi successivi Renzi diventò segretario del PD e poco dopo Presidente del Consiglio;
Al di la delle ricostruzioni più o meno scandalistiche, finalizzate a trovare i colpevoli di quel voto, a quasi due anni di distanza e valutati gli effetti pratici delle bocciature di Marini e di Prodi, risultano evidenti alcuni dati di fatto:
a) la bocciatura di Marini e Prodi è stata il risultato dell'orientamento, prevalente tra diversi parlamentari, di decidere individualmente anziché in base alle scelte del gruppo parlamentare. Chi non ha votato Marini e Prodi ha scelto di non rispettare le decisioni dei gruppi parlamentari e ha così, di fatto, rotto, su una scelta di grande rilievo, le regole fondamentali per il funzionamento di una forza politica. Questo elemento impone un riflessione sui metodi da seguire per assumere decisioni condivise nelle rappresentanza istituzionali, altrimenti si rischia una stato di anarchia permanente;
b) sulla bocciatura di Marini influì una pressione esterna di militanti e attivisti che attraverso i social-network espressero giudizi molto negativi sull'ex segretario della Cisl e arrivarono, in alcuni casi, a occupare le sedi del PD contro Bersani e il suo gruppo dirigente. Da qui la celebre e inedita sceneggiata di “Occupy PD”. In questo modo anche nel PD si diffusero comportamenti propri del M5S, dove le scelte politiche vengono, in apparenza, delegate alla RETE. Dietro questi comportamenti si nascone il tema del coinvolgimento dei cittadini nell'elezione del Presidente della Repubblica che non è previsto dalla nostra Costituzione. Il Presidente svolge un ruolo di garanzia e unità ed è eletto dal Parlamento a differenza di quanto accade nelle repubbliche presidenziali;
c) sulla bocciatura di Prodi influirono inoltre la volontà di vendetta di molti sostenitori di Marini e la volontà di far naufragare la strategia politica di Bersani, per arrivare alla nascita di un Governo di minoranza da lui guidato e appoggiato dall'esterno dal M5S;
d) le bocciature di Marini e Prodi hanno favorito la nascita del Governo di larghe intese, la sconfitta della linea politica di Bersani e la successiva affermazione di Renzi prima alla segreteria del PD e poi alla presidenza del Consiglio;
e) al di là delle intenzioni e delle motivazioni dei singoli parlamentari, la conclusione oggettiva delle due bocciature è stata la sconfitta definitiva di Bersani e l'affermazione di una nuova leadership e di un nuovo modo di dirigere il Partito che ha portato all'attuale situazione.
Cosa fare per prevenire un simile esito:
1) rispettare un valore vecchio ma sempre attuale per decidere sui temi di grande importanza facendo prevalere il senso di responsabilità collettivo alle sensibilità personali. Un partito esiste se si rispettano le regole comuni; 2) individuare candidati autorevoli che raccolgano la massima unità nel Parlamento: il Presidente non è il capo di una parte politica, ma il garante dell'equilibrio e dell'unità nazionale; 3) costruire percorsi di condivisione e coinvolgimento sul candidato; 4) evitare forzature cercando sempre il massimo consenso fra i parlamentari.
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Dossier di approfondimento Camera dei Deputati
Dossier di approfondimento Gruppo PD
LA CAMERA BOCCIA GLI EMENDAMENTI PER LO STATUTO SPECIALE AL VENETO
Martedì 27 gennaio 2015, la Camera dei Deputati, nel corso dell'esame della riforma della Costituzione, ha respinto a larghissima maggioranza gli emendamenti 30.28 e 30.29, il primo della Lega con 345 contrari e 86 favorevoli, il secondo dell'onorevole Rubinato (PD) con 356 contrari e solo 29 favorevoli. Questi emendamenti proponevano di aggiungere il Veneto alle cinque regioni a Statuto speciale. La discussione alla Camera ha permesso di affrontare l'argomento in modo trasparente facendo emergere che non esistono reali motivazioni per inserire il Veneto tra le regioni a Statuto speciale. Infatti gli statuti speciali sono determinati dalla presenza di minoranze linguistiche e da ragini storiche. Da una parte il Friuli Venezia Giulia, il Trentino Alto Adige e la Valle D'Aosta hanno ottenuto lo statuto speciale per tutelare le minoranze linguistiche e culturali presenti in quei territori che erano state discriminate dal regime fascista, dall'altra Sicilia e Sardegna per la presenza di fortissimi movimenti autonomisti che avevano svolto un ruolo determinante nella liberazione delle due isole. Queste condizioni sono riconosciute dal 1948. Gli estensori della proposta di statuto speciale per il Veneto hanno sostenuto che la nostra Regione confina con altre regioni a statuto speciale e quindi meriterebbe analogo trattamento. È evidente come questo argomento sia ridicolo: procedendo in questo senso si sposterebbero via via i confini del regime di specialità innescando un “effetto domino” che coinvolgerebbe immediatamente la Lombardia e poi il Piemonte, Liguria, Emilia sino a ricomprendere tutte le regioni del Paese. Il secondo argomento a sostegno degli emendamenti, sarebbe il fatto che lo statuto speciale favorirebbe la crescita della ricchezza delle popolazioni. In questo caso si tratta di un argomento strumentale che può essere smontato dalla storia stessa della nostra regione e della vicina Lombardia. Dopo la seconda guerra mondiale infatti il Veneto ha saputo accrescere la propria ricchezza sino a divenire un modello di sviluppo per tutta l'Italia, soprattutto grazie alla lungimiranza, alla laboriosità e ai sacrifici dei veneti e dei loro rappresentanti istituzionali. Tutto ciò è accaduto senza lo statuto speciale che è ininfluente rispetto a queste dinamiche. Il confronto tra quel periodo e gli anni di Galan e Zaia, che hanno sperperato il lavoro di decenni di crescita e industrializzazione del nostro territorio, spiega perché la Lega agita lo statuto speciale per nascondere il proprio disastro. Infine l'argomento che è stato decisivo per convincere i deputati a bocciare l'emendamento in questione è il processo di integrazione europea in atto, che impone all'Italia come agli altri paesi dell'Unione di superare i localismi e la dimensione regionale: basti pensare alle crescenti difficoltà che mostrano le regioni ad accedere ai Fondi Strutturali Europei. Questi elementi indicano che la specialità per il Veneto è del tutto strumentale e viene utilizzata dalla Lega in modo demagogico. Ciò che stupisce è come anche alcuni esponenti del PD abbiano sostenuto la specialità per ragioni di scarsa autonomia culturale, di sudditanza nei confronti del pensiero dominante leghista e di una furbesca ricerca di consenso elettorale priva di prospettiva politica. Definito questo punto una volta per tutte, c'è da augurarsi che la Regione Veneto inizi ad occuparsi sul serio delle proprie competenze a partire dalla ridefinizione degli assetti istituzionali del proprio territorio.
ALLA CAMERA TUTTI CONTRO LA LEGA: NO ALLO STATUTO SPECIALE PER IL VENETO CORRIERE DEL VENETO 29 GENNAIO 2015
Diciamo che nessuno, all’atto pratico, si aspettava che accadesse il contrario, però il «no» è ufficiale e va registrato. La Camera ha bocciato l’emendamento leghista che, su richiesta del governatore Luca Zaia, introduceva nel disegno di riforma costituzionale lo statuto speciale anche per la Regione Veneto. Gli unici a votare a favore sono stati gli stessi leghisti, mentre tutti gli altri partiti si sono espressi per il no. E’ bene che i veneti lo sappiano - tuona Federico Caner, capogruppo della Lega in consiglio regionale - , questa vicenda è emblematica di quante bugie si possono raccontare in campagna elettorale. Da Bressa a Ladylike Moretti fino al segretario regionale De Menech, tanti nel Pd si sono riempiti la bocca con le promesse di statuto speciale, salvo poi bocciarle a Roma». Rincara il parlamentare leghista Emanuele Prataviera: «Con un blitz notturno i deputati veneti hanno tradito il nostro popolo e tutti i sindaci, che si erano chiaramente espressi per l’autonomia, con tanto di formale richiesta dell’Anci Veneto. Anche Forza Italia, non soltanto il Pd, in Veneto dice un cosa e poi a Roma fa l’esatto opposto». I leghisti, comprensibilmente, fanno la loro battaglia di bandiera, ma era del tutto realistico attendersi che la richiesta di fare del Veneto la sesta regione a statuto speciale sarebbe finita sepolta sotto una valanga di no (345 contrari e 86 favorevoli è l’esito della votazione). Respinto, con numeri ancora più pesanti, anche l’analogo emendamento a firma della pasionaria autonomista del Pd veneto, Simonetta Rubinato. Che si è presa questa stilettata da Alessandro Naccarato, come lei deputato del Pd: «Le ragioni portate a sostegno della specialità del Veneto erano del tutto strumentali e sono state utilizzate dalla Lega in modo demagogico. Ciò che stupisce è come anche alcuni esponenti del Pd abbiano sostenuto la specialità per ragioni di sudditanza nei confronti del pensiero dominante leghista e di una furbesca ricerca di consenso». E forse la Rubinato non era l’unica destinataria degli strali di Naccarato. ul fronte democratico, il segretario De Menech prova a spostare il tiro sul terreno dell’autonomia: «Grazie a un nostro specifico emendamento alla riforma costituzionale, la nuova formulazione degli articoli 116 e 117 apre spazi inediti di autonomia negoziabile per le Regioni. Mi auguro che il Veneto, dopo vent’anni di scontri inconcludenti con lo Stato, sappia finalmente cogliere questa opportunità».
AUTONOMIA, IL VENETO PUO' ATTENDERE MATTINO DI PADOVA 29 GENNAIO 2015
Lo statuto speciale può attendere. Nell’ambito della riforma dell’articolo 116 della Costituzione, che riconosce alle Regioni “virtuose” ulteriori forme di autonomia in determinate materie, purché si trovino in condizioni di equilibrio di bilancio, la Camera ha infatti respinto, a larghissima maggioranza, due emendamenti (uno della Lega Nord e l’altro dall’onorevole Simonetta Rubinato del Pd) che puntavano ad aggiungere il Veneto alle cinque Regioni che già godono di una particolare autonomia. In particolare l’emendamento 30.28, appoggiato dal Carroccio, ha raccolto 86 voti favorevoli e 345 contrari; quello dell’onorevole Rubinato (il 30.29) si è fermato a soli 29 voti favorevoli, a fronte di 356 contrari. L’emendamento leghista ha visto contrario il Pd (assenti Crimì, Dal Moro, De Menech, Moretto e Rubinato); a favore i pentastellati (assenti Rostellato e Turco, passati al gruppo Misto); favorevoli gli esponenti veneti del Carroccio. Un sì è arrivato da Capua di Scelta Civica, un no da Quintarelli; assenti Catania e Zanetti. Articolato il voto di Forza Italia: assenti Brunetta, Galan, Longo,Milanato; favorevoli Giorgetti e Polidori; contrario Valentini. Sul fronte del “no” anche Causin (Area Popolare) e Marcon di Sel; assente Pastorelli (Psi-Pli). Per quanto riguarda l’emendamento Rubinato, la stessa parlamentare trevigiana prima lo ha illustrato in aula e poi lo ha ritirato. Ma a quel punto la proposta è stata rilanciata dal leghista Busin, sicchè l’onorevole Rubinato si è vista costretta ad approvarla, mentre i compagni di partito la bocciavano. Ieri sono fioccate le prese di posizione. «Gli estensori della proposta di statuto speciale per il Veneto», afferma Alessandro Naccarato, che ha votato convintamente no, «hanno sostenuto che la nostra Regione confina con altre Regioni a statuto speciale e quindi meriterebbe analogo trattamento. È evidente come questo argomento sia ridicolo: procedendo in questo senso si sposterebbero via via i confini del regime di specialità, innescando un effetto domino». Di tutt’altro avviso il capogruppo leghista in consiglio regionale, Federico Caner. «L’emendamento l’hanno respinto tutti, tranne ovviamente la Lega (anche se il report delle votazioni rivela che il M5S si è espresso a favore, ndr)», argomenta Caner, «eppure sarebbe stato semplicissimo inserire il nome “Veneto” nella lista delle Regioni autonome. Una modifica semplicissima che arrivava non solo da Zaia attraverso la lettera a tutti i parlamentari veneti, ma anche dai sindaci del Pd in Anci Veneto». «I veneti meritano l’autonomia» chiosa il deputato veronese Matteo Bragantini (Lega Nord). «La volontà autonomista» replica Roger De Menech, «si misura sui provvedimenti concreti».
«LA MANO DELLA MAFIA SULLE TERME» IL PD RILANCIA L’ALLARME E BACCHETTA IL SINDACO: MINIMIZZARE NON SERVE MATTINO DI PADOVA 27 GENNAIO 2015
Il rischio che la lunga mano della mafia sia arrivata anche alle Terme è concreto e minimizzare non è utile per nessuno. A dirlo, una volta di più, sono i due parlamentari del Partito democratico Vanessa Camani e Alessandro Naccarato che già l’anno scorso avevano lanciato l’allarme e che ora hanno firmato l’interrogazione con cui si chiede al ministro degli Interni di far luce sulla presenza a Montegrotto della ditta Marco Polo Spa. La società - titolare in associazione di imprese dell’appalto per l’illuminazione - risulta infatti coinvolta nelle indagini avviate dalla Procura di Roma nell’inchiesta “Mafia capitale”.
L’ipotesi che la malavita abbia preso di mira la città sampietrina era stata scartata immediatamente dal sindaco Massimo Bordin che ha parlato di casualità. Ma i due deputati non ci stanno e ricordano qualche precedente allarmante. «Già nel 1994 la Commissione parlamentare antimafia aveva definito i nostri territori termali di particolare interesse per la criminalità organizzata. Nello specifico il riferimento è al settore alberghiero con le forze dell’ordine e la magistratura che si dichiaravano certe della presenza di complesse attività di riciclaggio, operazioni economiche sospette e ricchezze improvvise altrettanto degne di nota. Liquidare tutto con un “può succedere” come fa Bordin», proseguono Naccarato e Camani nella loro nota, «denota l’inadeguatezza di chi rappresenta le nostre istituzioni locali. A Montegrotto bisogna invece alzare il livello di guardia e il controllo mettendo in campo azioni di prevenzione. Per esempio», concludono i due parlamentari democratici, «il bando con cui nel 2010 la Marco Polo vinse l’appalto era molto generico e troppo vasto per importi alti. Sono elementi che possono favorire questo tipo di rischio».
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Interrogazione a risposta scritta al Ministro dell'Interno
NO TAV: LA SENTENZA CONFERMA LE ACCUSE
Dopo tre anni e mezzo dagli scontri nel cantiere TAV della Val di Susa, il processo di primo grado contro i 53 esponenti del movimento NO TAV ha prodotto la prima sentenza con 47 condanne per un totale di 145 anni di carcere. Finalmente, grazie al lavoro dei magistrati, su questa pericolosa vicenda è stata ricostruita la verità dei fatti sulla quale ci auguriamo possano cessare le polemiche strumentali che in questi anni hanno riempito i giornali tentando di confondere l'opinione pubblica e mistificando la realtà. In quegli scontri i gruppi organizzati dell'estrema sinistra hanno compiuto atti di violenza e teppismo, contrari alle leggi del nostro Paese, mettendo a repentaglio la pubblica sicurezza e in alcuni casi anche la vita dei militari impiegati per tutelare il cantiere di una importante opera pubblica, decisa democraticamente da tutti i soggetti titolati a compiere quella scelta. Gli atti di sabotaggio e talvota di vera e propria guerriglia hanno oggi una qualificazione giuridica determinata e sono state definite le precise responsabilità in capo a ciascuno dei colpevoli di quei reati. Questa vicenda impone a ciascuno di riflettere sulle valutazioni espresse dopo i fatti del 2011 e di trarre le necessarie conseguenze per evitare in futuro assurde divisioni di fronte agli atti illegali e violenti a cui abbiamo assistito.
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LE MINACCE A CASELLI E IL SILENZIO DELLA CGIL MATTINO DI PADOVA 25 FEBBRAIO 2012
SCONTRI IN VAL DI SUSA ZENO ROCCA CONDANNATO A TRE ANNI E NOVE MESI MATTINO DI PADOVA 28 GENNAIO 2015
Quarantasette condanne e sei assoluzioni al maxi-processo di Torino nei confronti degli attivisti No Tav, accusati a vario titolo di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, in seguito agli episodi del 27 giugno e 3 luglio 2011, quando i manifestanti si scontrarono con le forze dell’ordine al cantiere di Chiomonte. Complessivamente sono state comminate pene per circa 145 anni, un numero inferiore rispetto ai 193 anni chiesti dai pubblici ministeri. Condannato a 3 anni e 9 mesi anche Zeno Rocca, residente a Verona, uno dei leader del movimento antagonista padovano e recentemente “espulso” da Padova con un foglio di via per i numerosi precedenti penali. Lui, come tanti altri, dovranno pagare anche in solido per i danni riconosciuti dal giudice. Gianluca Ferrari, del centro sociale rivolta di Marghera, originario di Cittadella, è stato invece condannato a quattro anni e due mesi. Il questore di Padova Ignazio Coccia ha firmato il foglio di via a carico di Zeno Rocca appena dieci giorni fa. Rocca, 23 anni, originario di Pescantina (Verona), uno dei capi del nuovo movimento antagonista formato da Centro sociale Pedro, collettivo Gramigna e gruppi studenteschi, per tre anni non potrà mettere piede in città, pena l'inasprimento del provvedimento che potrebbe portare anche all’arresto. Occupazioni, interruzione di pubblico servizio e gli scontri del 14 novembre 2012 davanti alla stazione di Padova, sono solo alcuni degli episodi che gli vengono contestati.
CONDANNE PER 145 ANNI AI NO TAV CORRIERE DELLA SERA 28 GENNAIO 2015
Il 27 giugno e il 3 luglio 2011, negli scontri al cantiere Tav a Chiomonte, i feriti sono stati 388 (188 agenti, 200 manifestanti). Sono stati esplosi centinaia di lacrimogeni. I No Tav erano armati di bombe carta, bulloni, fionde, petardi e di catapulte rudimentali. In entrambe le circostanze si arrivò ad un corpo a corpo. A quasi quattro anni di distanza, il bilancio di quegli scontri si conclude con altri numeri. Sono quelli pronunciati ieri nella sentenza contro 53 esponenti del movimento che si oppone alla Torino-Lione: 47 condanne per un totale di 145 anni di carcere e sei assoluzioni. Gli imputati erano accusati di resistenza e lesioni. Il dispositivo è stato letto in un’ora e due minuti dal giudice Quinto Bosio nell’aula bunker del carcere delle Vallette (costruita negli anni Ottanta per ospitare i processi per terrorismo e contro la criminalità organizzata). Le pene vanno da 250 euro di multa a 4 anni e sei mesi di carcere. Provvisionali per 150 mila euro sono state accordate alle parti civili: ministeri dell’Interno, della Difesa, dell’Economia, Ltf (l’azienda titolare dei lavori nel cantiere), i sindacati di polizia e agenti rimasti feriti. «La sentenza sa più di vendetta che di giustizia — ha tuonato Alberto Perino, leader dei No Tav —. È il fallimento dell’estremo tentativo di farci fuori». Pene che colpiscono con durezza anche esponenti del centro sociale Askatasuna, da sempre vicino al movimento. Plaude il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi: «La sentenza ristabilisce il primato della legalità: assaltare un cantiere, ferire 188 persone, è un crimine». Condannato a 3 anni e due mesi Mario Nucera, il barbiere di Bussoleno, figura pittoresca tra i No Tav: «Ero a 50 metri da dove sono avvenuti gli scontri. Eppure sono stato condannato e non si è tenuto conto che io sono incensurato». Per Massimo Montebove, del sindacato di polizia Sap, le condanne confermano che «la Val di Susa è diventata un parco giochi per facinorosi». Twitta il senatore del Pd Stefano Esposito: «La giustizia fa il suo corso e la sentenza va rispettata». Di parere diverso Eleonora Forenza, eurodeputata dell’Altra Europa con Tsipras: «Un’inaudita repressione del movimento che lotta contro lo scempio del territorio». Una sentenza definita «ingiusta» dai grillini, mentre Anna Ronfani, legale di Ltf, puntualizza: «Non sono state condannate le opinioni, ma le illegalità». I militanti No Tav hanno accolto la sentenza cantando «Bella ciao» e, ieri sera, hanno marciato in 200 a Bussoleno. Sono state lanciate pietre e fumogeni. L’autostrada del Frejus è stata occupata e chiusa per ore. I carabinieri hanno fermato 5 persone.
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