RIFORMA DELLA COSTITUZIONE MOLTI RISULTATI MATTINO DI PADOVA 19 FEBBRAIO 2015
Si è concluso la scorsa settimana, nella notte tra venerdì e sabato, l’esame alla Camera della riforma della Costituzione: nonostante le polemiche aspre e spesso immotivate delle opposizioni e l’assurda volontà di bloccare il testo attraverso l’ostruzionismo, grazie alla determinazione del Pd, la volontà di proseguire nel cammino delle riforme ha avuto la meglio sull’atteggiamento strumentale assunto dalle minoranze in aula. Di fronte ad un cambiamento così importante è utile accantonare quelle polemiche ed esaminare il merito della riforma che affronta temi irrisolti da anni con l’obiettivo di rendere più efficace il procedimento legislativo, correggere l'eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza e superare i molti limiti presenti nel titolo V sui rapporti tra Stato e autonomie locali. In particolare il Ddl supera il bicameralismo perfetto e disegna un sistema legislativo monocamerale. Il Senato diventa un organo di secondo grado con 100 senatori, eletto dai consigli regionali, che rappresenta le istituzioni territoriali. Il Senato è escluso dalla compartecipazione all’indirizzo politico e dalla relazione fiduciaria con il Governo che è assegnata alla sola Camera dei deputati. Sul piano politico il nuovo Senato richiama l’impianto programmatico del Senato delle autonomie al centro della proposta della coalizione dell’Ulivo del 1996. La riforma, inoltre, migliora il procedimento legislativo che resta bicamerale paritario solo per i disegni di legge costituzionali. Le altre leggi sono approvate dalla Camera. Per i disegni di legge non costituzionali il Senato è esclusivamente organo di seconda lettura, di proposta eventuale di modifiche. Rispetto al procedimento legislativo inoltre vengono costituzionalizzate le previsioni introdotte dalla legge n. 400 del 1988 sulla decretazione d’urgenza. Così il decreto legge non potrà intervenire nelle materie indicate nell’articolo 72, quarto comma, della Costituzione e cioè non sarà possibile reiterare disposizioni di decreti legge non convertiti o regolare rapporti giuridici sorti sulla loro base, né ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale per vizi non attinenti al procedimento. La riforma rafforza il ruolo del Governo nel procedimento legislativo, riconoscendogli una duplice potestà di richiesta, sui disegni di legge, di iscrizione con priorità all’ordine del giorno della Camera e di esame e voto finale entro un termine determinato. Infine la riforma del titolo V. Alla luce della riforma del 2001 è necessario correggere i limiti profondi emersi in 14 anni d’esperienza che hanno rallentato e in alcuni casi bloccato importanti decisioni. Tre gli aspetti principali. Primo, la confusione nell'attribuzione delle funzioni e delle materie tra Stato e regioni e i conseguenti ricorsi alla Corte costituzionale aumentati dal 7,6 al 45,7% dei giudizi in via principale. Tale confusione ha prodotto la moltiplicazione delle leggi regionali in diverse materie, generando costi crescenti, incertezze e ostacoli per le attività economiche. In secondo luogo è bene intervenire per evitare i risultati economici negativi di molte regioni e delle autonomie locali. Sul punto l’analisi della Corte dei Conti ha evidenziato che, dal 2001, i bilanci delle regioni presentano difficoltà crescenti e un ricorso eccessivo all'indebitamento. Ancora, il ddl intende superare la paralisi nell’assunzione di decisioni strategiche su materie fondamentali come la politica energetica e le infrastrutture, dove i veti incrociati delle regioni e degli enti locali hanno bloccato la realizzazione di opere decisive per lo sviluppo del Paese. La riforma risponde all’esigenza di affidare allo Stato temi fondamentali per lo sviluppo economico e sociale e, dunque, assegna alla competenza esclusiva dello Stato le infrastrutture strategiche e le grandi reti di trasporto e di navigazione, i porti e gli aeroporti, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell'energia. Inoltre la riforma affronta in modo risolutivo la questione delle province, che scompaiono dalla Costituzione, cancella la legislazione concorrente e introduce una clausola di supremazia statale. Si supera finalmente l’impostazione propagandistica sin qui affidata al federalismo che è stato realizzato male e in modo superficiale. Il provvedimento contiene gli elementi per riprendere con coraggio il percorso verso uno Stato composto da un sistema di autonomie che cooperano e collaborano tra loro, rafforzando le regioni con competenze ben definite e attraverso il superamento della finanza derivata, con effettive entrate proprie e controlli più incisivi in un quadro di maggiori responsabilità. Questa riforma assicura maggiore capacità di intervento, adegua la velocità nelle decisioni e riduce la conflittualità tra istituzioni.
Per saperne di più
Testo a fronte del provvedimento
Dossier di approfondimento del servizio studi della Camera
Articolo La Stampa 19 Febbraio 2015
PROFUGHI, ARRIVA IL NO DEI SINDACI PD I PREFETTI CHIEDONO CASERME E POTERI CORRIERE DEL VENETO 18 FEBBRAIO 2015
L’esasperazione per un’emergenza profughi che sembra non avere mai fine è riuscita perfino ad avvicinare il Pd alle posizioni della Lega. Nelle ultime ore, dopo l’approdo in Veneto di altri 150 disperati, a dire «basta» sono stati due sindaci del centrosinistra. Ovvero Giovanni Manildo, che nella sua Treviso ha impedito agli ultimi 35 arrivati di scendere dal pullman che li ha trasferiti da Agrigento e che è rimasto fermo in stazione per l’intera giornata di ieri(«in città non ci sono più posti per i profughi»), e Achille Variati. Il primo cittadino di Vicenza ha invece disertato il vertice a Venezia tra prefetti, sindaci, Province, forze dell’ordine e Croce Rossa (ha brillato l’assenza della Regione), perchè in contrasto con «il sistema sbagliato proposto dallo Stato, che porta alla clandestinità e alle relative conseguenze sociali». Ma gli sbarchi in Sicilia continuano e il Viminale prosegue nella distribuzione dei migranti in tutta Italia. Nel summit organizzato dalla prefettura lagunare è emerso che nelle prossime ore la nostra regione dovrà ospitarne altri 250. Ora ne conta 2153, circa il 4% dei 36.241 presenti nel Paese, contro una percentuale dell’8% assegnata dal ministero dell’Interno, che si traduce in 3742 immigrati destinati al Veneto. E così Verona, che ne ha 391, entro la settimana ne riceverà altri 47; Vicenza ne dovrà aggiungere 34 agli attuali 441; Venezia è chiamata a sistemarne 55 oltre ai 301 presenti; Treviso sarà costretta a ospitarne 58 accanto agli odierni 306; a Padova, che ne segue 370, ne giungeranno 53; e Rovigo, dove sono rimasti 169 profughi, si limiterà a dare il benvenuto a tre migranti. Per ora, poi dovrebbero seguire altri invii, fino al raggiungimento della soglia di 3742. Solo Belluno è esente, perché con 173 profughi ha raggiunto la propria quota. E il resto del territorio come farà, visto che ieri i sindaci hanno ribadito per l’ennesima volta di non sapere più dove metterli? «La strategia finora seguita dalle prefetture è stata di rivolgersi a volontariato e alberghi per consentire una distribuzione di numeri medio-piccoli — chiarisce la prefettura lagunare —. Poiché la disponibilità di accoglienza è in via di esaurimento, si stanno praticando altre soluzioni». L’accordo raggiunto ieri incarica il prefetto di Venezia, Domenico Cuttaia, di presentare al Viminale tre richieste: domandare al ministero della Difesa la disponibilità di caserme e altri beni del demanio a uso militare dismessi non da troppo tempo, perché non ci sono soldi nè tempo per rimettere in piedi immobili fatiscenti; sollecitare fondi per ripristinare proprietà degli enti locali adatte allo scopo; e, come ultima ratio, ponderare la dichiarazione di emergenza di Protezione civile, che amplia i poteri dei prefetti, consentendo loro di andare in deroga e accelerare per esempio le pratiche per il riadattamento di edifici o la loro requisizione a privati o enti pubblici. Opzione quest’ultima già ventilata da Cuttaia lo scorso ottobre ma alla quale si preferirebbe la strada della concertazione, anche perchè la dichiarazione di emergenza di Protezione civile può essere richiesta solo dal presidente della Regione. E Luca Zaia ha lasciato la gestione dell’emergenza ai prefetti, che anche ieri hanno rinnovato a Comuni e Province l’invito a «concorrere all’ampliamento delle disponibilità alloggiative, sensibilizzando organismi di volontariato e albergatori». Questi ultimi sono già stati ampiamente «testati» e diversi già alloggiano migranti, però con l’inizio della stagione calda dovranno liberare le stanze. Partirà allora una ricognizione delle caserme in disuso nelle varie province, ma anche di immobili diversi, come vecchi conventi, ex scuole di polizia e presidi dei vigili del fuoco, istituti scolastici ormai chiusi. «Certo, i siti militari garantirebbero meno impatto sul territorio e più controlli — riflette Perla Stancari, prefetto di Verona — consideriamo che se non riusciremo a sistemare le nuove ondate di rifugiati, potranno scoppiare problemi di ordine pubblico. Abbiamo però bisogno di essere assistiti dal governo, da soli non ce la facciamo». Ma è proprio vero che lo Stato ha abbandonato prefetti e sindaci? «Non direi, il 10 luglio 2014 in sede di conferenza unificata Regioni e Anci hanno firmato col governo un’intesa sul sistema di accoglienza, che dal primo gennaio ha aumentato tre fondi dedicati — rivela Alessandro Naccarato (Pd), in commissione Interni alla Camera —. E’ salito di 12 milioni quello dedicato ai minori stranieri non accompagnati, è stato incrementato di 187 milioni il finanziamento per le politiche e i servizi dell’asilo e sono raddoppiate da 10 a 20 le commissioni territoriali per il riconoscimento di status di rifugiato (quelle di Verona e Padova partiranno il primo marzo, ndr). Se serviranno altri stanziamenti cercheremo di provvedere, ma non possiamo rifiutare l’accoglienza a chi è tutelato dal diritto internazionale». Ieri al Viminale si è tenuta una riunione per vedere come limitare gli arrivi, controllare che non ci siano delinquenti tra i profughi e aumentare le risorse a favore degli enti locali che ospitano i disperati. Ma il centrodestra è drastico. «Dove sono le nostre navi da guerra? — chiede Antonio Pastorello (FI), presidente della Provincia di Verona — Perchè non mitragliano e affondano gli scafisti criminali, quando tornano alle loro basi?».
CRISI IN LIBIA E RUOLO DELL'ITALIA
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Articolo La Stampa 17 Febbraio 2015
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Articolo Corriere 17 Febbraio 2015
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Articolo La Stampa 18 Febbraio 2015
Articolo Il Sole 24 Ore 19 Febbraio 2015
Articolo Il Sole 24 Ore 19 Febbraio 2015
INTERVENTO DEL MINISTRO DEGLI ESTERI ALLA CAMERA
Grazie Presidente, onorevoli colleghi,
la crisi in Libia si presenta oggi con un grave deterioramento del quadro di sicurezza, evidenziato a Tripoli dall'attacco all'Hotel Corinthia del 27 gennaio scorso, da ripetute incursioni a impianti petroliferi, sia nel nord-ovest che nella regione meridionale del Fezzan, e, da ultimo, dalla barbara uccisione di ventuno cristiani copti a Sirte.
Questo quadro ci ha, tra l'altro, portato a decidere, il 15 febbraio, la temporanea chiusura della nostra ambasciata, l'ultima tra le ambasciate occidentali rimaste aperte a Tripoli. Desidero ringraziare qui il responsabile della Farnesina, della Difesa, dell’Intelligence e delle amministrazioni che hanno collaborato al buon esito di quella operazione.
La realtà della presenza di gruppi terroristici in Libia dev'essere valutata con attenzione, distinguendo tra fenomeni locali, come Ansar al-Sharia, criminalità comune, che si appoggia strumentalmente a questi fenomeni, e realtà esterne rappresentate dai combattenti stranieri che rispondono a Daesh e che affluiscono da aree di crisi africane mediorientali. Si tratta di fenomeni che si autoalimentano, in questa fase, traendo vantaggio dall'assenza di un quadro istituzionale del Paese. In questo modo, questi gruppi hanno preso il controllo di una importante città come Derna; stanno cercando, ma la situazione è molto contrastata sul terreno, di impossessarsi di Sirte, 500 chilometri a est da Tripoli, di mantenere il controllo di alcune zone di Bengasi e di guardare anche verso la capitale. È evidente il rischio di saldatura tra gruppi locali e Daesh e la situazione va seguita con la massima attenzione.
Le origini della crisi attuale vanno cercate negli errori compiuti, anche dalla comunità internazionale, nella fase successiva alla caduta del vecchio regime. La caduta di Gheddafi ha scoperchiato rivalità politiche, religiose, regionali, etniche e tribali che il vecchio regime dittatoriale era riuscito in gran parte a soffocare e ha evidenziato l'incapacità di incanalare tali forze all'interno di un dialogo democratico, nonostante alcune tappe incoraggianti come le elezioni del luglio 2012, che avevano portato alla costituzione del Governo Zidan, durato fino al marzo del 2014.
Nella sua difficile transizione verso la democrazia, la Libia è rimasta esposta alle divisioni tra fazioni, favorite dall'ingente presenza di armamenti, dalla fragilità delle nuove istituzioni e dalla stessa enorme ricchezza del Paese, oggetto del contendere tra gruppi di interesse contrapposti.
Tutto questo ha soffocato sul nascere il tentativo di un rilancio della transizione libica, avvenuto con le elezioni per la Camera dei rappresentanti del giugno scorso. E, nonostante il fatto che le elezioni abbiano prodotto un Parlamento e un Governo riconosciuti dalla comunità internazionale, esse non hanno segnato una svolta decisiva del processo politico.
Oggi, dunque, ci troviamo con un Paese con un vastissimo territorio, con istituzioni praticamente fallite e potenziali gravi ripercussioni non solo su di noi, ma sulla stabilità e la sostenibilità dei processi di transizione nei Paesi africani nelle sue immediate vicinanze. L'Italia ha deciso, sin dal primo momento, di sostenere senza sosta lo sforzo di mediazione delle Nazioni Unite condotto dall'inviato speciale Bernardino Leon, sapendo bene che l'unica soluzione alla crisi nel Paese è quella politica. Dopo le due sessioni di dialogo a Ginevra di gennaio, l'incontro di Ghadames, dell'11 febbraio scorso, ha visto la partecipazione, per la prima volta, anche del Congresso di Tripoli. È stato un passo nella direzione giusta e ci siamo arrivati con grande impegno, in primo luogo con l'impegno del nostro Paese, che ha messo a disposizione delle Nazioni Unite non solo il proprio patrimonio di contatti politici ed economici, ma anche un'importante assistenza logistica per lo svolgimento delle varie sessioni di dialogo.
Ma dobbiamo essere chiari sulla situazione che si sta sviluppando. Mentre il negoziato muove questi primi passi, la situazione si aggrava. Il tempo a disposizione non è infinito e rischia di scadere presto, pregiudicando i fragili risultati raggiunti. Il deterioramento della situazione sul terreno e la crescente minaccia terroristica portano anche all'aggravarsi del dramma delle migliaia di persone che fuggono via mare sui barconi verso le nostre coste. In proposito, i dati a disposizione sono molto chiari e ci dicono che il numero degli sbarchi è molto aumentato rispetto allo scorso anno: dal 1o gennaio a metà febbraio sono infatti arrivate, nel nostro Paese, 5.302 persone, mentre nello stesso periodo dello scorso anno gli sbarchi erano stati 3.338. Non era, dunque, Mare Nostrum ad attirare i migranti, bensì il dramma delle aree di crisi su cui speculano, nel vuoto istituzionale libico, bande criminali assai agguerrite.
Di fronte alla crescita dell'onda migratoria una cosa è certa: non possiamo voltarci dall'altra parte, lasciando i migranti al loro destino. Non possiamo farlo, non sarebbe degno dell'umanità e della civiltà che hanno fatto grande l'Italia.
Dobbiamo, piuttosto, batterci per contrastare le cause delle migrazioni nei Paesi di origine e di transito e dobbiamo rafforzare sensibilmente Triton, per adeguarla alla realtà di un fenomeno di scala enorme. A questo proposito, ho inviato due o tre giorni fa una lettera all'Alto rappresentante dell'Unione europea, Mogherini, al Vicepresidente Timmermans e ai sei altri Commissari della Commissione Juncker, in cui ho chiesto, a nome del Governo italiano, che l'Unione europea faccia molto di più in termini di risorse finanziarie e di disponibilità di mezzi aeronavali, per rispondere con efficacia a questa emergenza, considerando che – lo ripeto – ad oggi, dall'inizio dell'anno, gli sbarchi sono aumentati del 59 per cento rispetto al 2014.
L'Europa è una superpotenza economica e una superpotenza economica come l'Unione europea può andare oltre i 50 milioni di euro l'anno che oggi vengono spesi per fronteggiare una simile emergenza.
Signora Presidente, onorevoli colleghi, di fronte alle minacce del terrorismo la nostra forza è la nostra unità. Dire che siamo in prima fila contro il terrorismo non è l'annuncio di avventure, tanto meno di crociate. È quello che stiamo facendo nella coalizione militare anti-Daesh in Siria e in Iraq. È il modo in cui un Paese democratico risponde alla barbarie e lo fa in amicizia con la stragrande maggioranza della comunità islamica, che rifiuta di vedere sequestrata la propria fede.
Mentre siamo in prima fila contro il terrorismo, chiediamo alla comunità internazionale di moltiplicare gli sforzi politico-diplomatici per stabilizzare la Libia. E finalmente vediamo crescere almeno la consapevolezza della gravità della crisi nella comunità internazionale.
Un primo importante appuntamento è la riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in programma oggi stesso nel pomeriggio a New York. Ci attendiamo da questo appuntamento una definitiva presa di coscienza al Palazzo di vetro della necessità di raddoppiare gli sforzi di mediazione per il dialogo politico.
Una tappa cruciale sarà poi rappresentata, nelle settimane successive, dal prossimo rinnovo della missione UNSMIL – quella sulla Libia – che il Consiglio di sicurezza dovrà decidere il 13 marzo prossimo. Noi stiamo lavorando, con i nostri partner che siedono in Consiglio di sicurezza, perché la missione venga dotata di un mandato, dei mezzi e delle risorse in grado di accelerare il dialogo politico per stabilizzare e dare assistenza a un nuovo quadro di riconciliazione e a un nuovo Governo di unità nazionale in Libia.
In questo processo l'Italia è pronta ad assumersi responsabilità di primo piano. Siamo pronti a contribuire al monitoraggio del cessate il fuoco. Siamo pronti a contribuire al mantenimento della pace. Siamo pronti a lavorare per la riabilitazione delle infrastrutture, per l'addestramento militare, in un quadro di integrazione delle milizie nell'esercito regolare. Siamo pronti a curare e a sanare le ferite della guerra e siamo pronti a riprendere il vasto programma di cooperazione con la Libia, sospeso la scorsa estate a causa del conflitto. La popolazione civile deve avere chiari i vantaggi della riconciliazione da parte dell'intera comunità internazionale.
Signora Presidente, colleghi, il deterioramento della situazione sul terreno impone dunque – sottolineo: lo impone – un cambio di passo da parte della comunità internazionale prima che sia troppo tardi. Il Governo è impegnato a tutti i livelli a promuoverlo e terrà costantemente informato il Parlamento, maggioranza e opposizione, degli sviluppi della situazione sul terreno. La crisi libica ci mette di fronte a uno di quei passaggi in cui tutti noi dobbiamo discutere e confrontarci, avendo una bussola comune: l'interesse generale del Paese.
CASO STAMINA
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Articolo La Stampa 19 Febbraio 2015
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