IL GOVERNO CONTRO
LE DONNE
Il Mattino di Padova, 18 dicembre
2008
Ci risiamo. Il
ministro della Funzione pubblica ha lanciato,
qualche giorno fa, la sua ennesima proposta-spot:
innalzare l’età pensionabile delle donne a 65 anni
(dai 60 attuali), equiparandola a quella degli
uomini. Come dire il lupo perde il pelo ma non il
vizio, ovvero quello - anche su un argomento così
delicato come quello delle pensioni - di fare
propaganda e demagogia. Mandare obbligatoriamente in
pensione le donne a 65 anni sarebbe una misura
sbagliata e discriminatoria nei loro confronti.
E’ necessario spiegarne i motivi. Anzitutto bisogna
considerare il fatto che, generalmente, le donne che
oggi lavorano hanno iniziato la loro attività in età
molto giovane, svolgendo lavori faticosi e usuranti
e dovendo badare anche alla cura dei propri figli,
certamente in una condizione di minor tutela
rispetto ad oggi. Basti pensare, per esempio, a
tutte le donne che hanno iniziato a lavorare, spesso
giovanissime, fin dalla metà degli anni Cinquanta e
che, quindi, oggi hanno poco meno di 60 anni e sono
prossime alla pensione: cosa significherebbe per
loro, dopo una vita di grandi sacrifici, dover
lavorare ancora prima di andare in pensione? Tanto
più che, a dire il vero, molte donne lavoratrici
hanno già la possibilità di poter prolungare la loro
attività fino all’età di 65 anni ma questa scelta si
basa, giustamente, su una loro decisione volontaria,
non certo su un obbligo di legge. Inoltre, gli
stessi dati forniti dall’Istat (si veda la
rilevazione dal titolo eloquente: «Conciliare lavoro
e famiglia») ci restituiscono un quadro chiaro: oggi
le donne rispetto agli uomini, fra il lavoro a casa
e quello in ufficio, iniziano prima e finiscono dopo
ed hanno meno tempo libero anche nel fine settimana,
dovendo badare alla propria famiglia.
Se si vuole affrontare seriamente l’argomento senza
penalizzarle ingiustamente, è necessario perciò
prendere in considerazione gli anni lavorativi
effettivamente svolti dalle donne. Così facendo, il
ministro Brunetta si accorgerebbe, appunto, che le
donne iniziano a lavorare mediamente prima degli
uomini e in età più giovane. Il governo, invece di
equiparare per legge l’età pensionabile di uomini e
donne, dovrebbe incentivare l’occupazione femminile
e potenziare i servizi per le donne che lavorano e
che hanno figli.
Prima di tutto il governo dovrebbe investire sugli
asili nido. In Italia, solo il 6% dei bambini sotto
i due anni trova posto in un asilo nido pubblico
contro il 30% del Belgio, il 40% della Francia e il
12% del Portogallo. Questo vorrebbe dire affrontare
il problema del lavoro femminile in modo serio e
concreto, non demagogico e provocatorio. Oggi,
invece, il ministro Tremonti non ha stanziato un
solo euro, né per promuovere delle efficaci
politiche attive per il lavoro delle donne, né per
dare seguito all’importante piano di costruzione di
nuovi asili nido avviato dal governo Prodi nella
scorsa legislatura.
Se si vogliono veramente cancellare le evidenti
discriminazioni che caratterizzano il lavoro delle
donne allora è necessario stanziare maggiori risorse
per costruire un sistema di welfare adatto a
raggiungere questo scopo: più risorse per la
maternità e i congedi parentali sul lavoro, più
risorse per gli asili nido e per garantire la
prosecuzione del tempo prolungato nelle scuole, più
risorse e agevolazioni a favore di tutte quelle
donne che per anni hanno svolto lavori faticosi ed
usuranti e, infine, più risorse per le giovani
coppie che decidono di formare una nuova famiglia,
staccandosi da quella d’origine, avere dei figli e
andare a vivere in una casa propria.
E’ esattamente la direzione opposta a quella
intrapresa dal governo Berlusconi che, per fare
cassa, colpisce pesantemente il sistema di
protezione sociale, la scuola primaria e non
contrasta efficacemente l’evasione fiscale dalla
quale si potrebbe invece recuperare una parte
consistente delle risorse necessarie per garantire
un sistema di welfare efficiente a vantaggio di
tutti, uomini e donne.