IL LIBRO
Gli anni di
piombo e il partito armato
tra Br e Autonomia
Solo nel biennio 1977-79 denunciati 708 atti di
violenza:
447 attentati 132 aggressioni e 129 rapine
Il Mattino di Padova, 30 novembre
2008
PADOVA.
Un saggio sul partito armato, sulla violenza di
massa, le notti dei fuochi e il terrore nelle
facoltà. Uno studio non sociologico, ma costruito
con le sentenze passate in giudicato emesse dai
tribunali, che in Veneto non hanno mai abdicato al
loro ruolo: Padova fu la capitale del terrorismo
diffuso, con Autonomia Operaia Organizzata e i
Collettivi Politici Veneti che hanno costruito un
record unico in Italia. Solo nel biennio 1977-79
furono denunciati 708 atti di violenza eversiva, con
447 attentati, 132 aggressioni a persone e 129
rapine e devastazioni.
A tornare su quella stagione è Alessandro Naccarato,
deputato Pd, che ha annodato i fili della memoria
nel libro ”Violenze, eversione e terrorismo del
partito armato a Padova” edito da Cleup: 340 pagine
dense di nomi, cronologie e fatti ricostruiti con le
tre sentenze emesse dal tribunale di Padova e dalle
corti d’Assise di Roma e Padova.
Naccarato ricostruisce, con l’approccio del rigore
storico, la galassia dei movimenti e parte da Potere
Operaio e dai suoi leader: Oreste Scalzone, Franco
Piperno e Toni Negri.
Perché ha scritto un volume raccogliendo le
sentenze: gli anni di piombo sono storia di 30 anni
fa...
«Perché le sentenze sono una fonte storica
eccezionale: esse sono il risultato di indagini e
processi e quindi del confronto tra prove oggettive,
testimonianze orali, documenti scritti, raccolti ed
esposti dalle parti in causa. Tutto il materiale
viene analizzato più volte nei vari gradi di
giudizio, in tempi differenti e con giurie formate
da diverse persone. Per questo motivo, per
ricostruire le vicende del Partito Armato a Padova
mi sono basato sulle sentenze emesse nei tre
principali processi. Ne esce un quadro
impressionante, che riguarda 243 persone rinviate a
giudizio per vicende di terrorismo, 162 delle quali
condannate a 424 anni di carcere».
I primi passi chi li mosse?
«Ovviamente Potere Operaio, che decise di
strutturarsi su due livelli: uno armato,
centralizzato, con strumenti adeguati ad una
strategia di offesa; l’altro di massa per essere
presente nei movimenti».
Ma il partito armato cos’era: una galassia di
sigle?
«Il partito armato era fondato sullo stabile
collegamento operativo tra singole distinte
organizzazioni, che erano collegate tra di loro da
rapporti politici e militari: Br, Prima Linea,
Autonomia operaia organizzata, Collettivi politici
veneti. Queste organizzazioni agivano in modo
complementare e concorrevano insieme, utilizzando la
violenza armata, nel disegno eversivo di
destabilizzare e colpire le istituzioni
democratiche».
Lei nel suo libro ricorda il Gruppo Ferretto di
Mestre: di cosa si tratta?
«Il primo salto di qualità nella strategia
eversiva è il patto tra i Gap di Feltrinelli, le Br
e Pot Op, con la nascita del Gruppo Ferretto a
Mestre. Là, secondo la testimonianza di un dirigente
della colonna veneta delle Br, Michele Galati,
militarono Carlo Picchiura, Susanna Ronconi, Pietro
Despali, Ivo De Rossi, Giuseppe Zambon, Massimo
Pavan, Roberto Ferrari e un tale di Verona
soprannominato Sherif, poi identificato per Martino
Serafini. Esaurita la prima fase, il gruppo entra
nelle Br e rafforza la colonna veneta costituita nel
1974, la cui direzione comprendeva Giorgio Semeria,
Prospero Gallinari, Roberto Ognibene e Fabrizio
Pelli.
Il Gruppo Ferretto fu quindi la prima esperienza di
cooperazione tra militanti di Pot Op e militanti Br
sul terreno della lotta armata».
Qualche mese dopo in via Zabarella c’è il
duplice omicidio nella sede del Msi...
«Sì, il 17 giugno 1974 Graziano Giralucci e
Giuseppe Mazzola furono uccisi. Per questi omicidi
verranno in seguito condannati Renato Curcio,
Alberto Franceschini, Mario Moretti, Giorgio Semeria,
Roberto Ognibene, Martino Serafini e Susanna Ronconi».
Ma quando nasce Autonomia operaia?
«Le sentenze stabiliscono che AOO nasce nella
IV conferenza nazionale di Pot Op che si tenne a
Rosolina dal 31 maggio al 3 giugno 1973. Là Antonio
Negri esce da Potere Operaio e promuove tra il 28
luglio e il 4 agosto nella facoltà di Scienze
politiche un seminario che diede vita alla nuova
organizzazione».
Nel 1974 c’è un altro fatto decisivo, che vede
protagonista Antonio Negri: qual è?
«Il 5 dicembre ad Argelato di Ferrara, un
commando armato assalta un furgone portavalori della
Siiz, lo zuccherificio Montesi. Viene assassinato il
brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini e
ferito l’appuntato Sciarretta. La sentenza della
Corte d’Assise di Roma condanna Caterina Pilega,
Silvana Marelli e Antonio Negri».
E’ una storia molto controversa, ma quale fu il
ruolo del professore, poi eletto deputato del
Partito radicale per evitare il carcere?
«No, non è affatto controversa. La Corte
d’Assise individuò in Toni Negri l’ideatore e il
mandante dei fatti di Argelato sulla base di diversi
elementi: le finalità della rapina per finanziare
l’organizzazione della quale Negri era al vertice,
le dichiarazioni di diversi testimoni e il
comportamento del professore dopo il fatto. Inoltre
l’agenda di Negri consentì di trovare riscontri
decisivi ai racconti dei testimoni. Il filosofo,
subito dopo il fatto, intervenne per aiutare la fuga
degli esecutori materiali: il 5 dicembre 1974
incaricò Mauro Borromeo di andarli a prendere alla
stazione di Milano e il giorno successivo partì per
la Svizzera per predisporre l’accoglienza dei
fuggitivi. Quello stesso giorno Borromeo incontrò
Caterina Pilenga per avvisarla di tenersi a
disposizione. Il 9 dicembre Claudio Bartolini,
Stefano Cavina, Franco Franciosi ed Ermesto Rinaldi
(esecutori materiali della rapina) furono
accompagnati al confine da Borromeo, Pilenga e
Marelli».
C’è un altro delitto che scuote Padova...
«Sì, il 4 settembre 1975 Carlo Picchiura uccise
l’agente di polizia Antonio Niedda a Ponte di
Brenta».
C’erano rapporti tra le diverse organizzazioni
terroristiche?
«Sì, è una delle caratteristiche del partito
armato. I legami tra Br e AOO non si interrompono
mai: nell’inverno ’72-73 a Torino, Renato Curcio
incontra Marco Bellavita, Negri e Fioroni per
approfondire la situazione della Fiat, poi c’è un
summit con Franceschini ma il vertice più delicato
avviene dopo il delitto di via Zarabella. Toni Negri
critica l’assalto delle Br e lo bolla politicamente
arretrato. Il vero obiettivo da colpire è il PCI,
ormai «socialdemocratico».
E a Padova che succede?
«Le sentenze ricostruiscono la lista infinita
delle violenze dell’Autonomia: dall’assalto al
Portello, con la casa dello studente Fusinato
avamposto di Pot Op e teatro degli scontri con la
polizia fin dal 9 marzo 1973, alle prime
esercitazioni armate sui Colli euganei per passare
poi alle violenze all’università. Un elenco
impressionante di minacce e pestaggi contro i pochi
professori che si opponevano agli autonomi: Guido
Petter, Oddone Longo e tanti altri. Inoltre ci
furono le azioni del Fronte comunista combattente,
una banda armata degli autonomi, che sparò al
giornalista Antonio Garzotto, al professor Ezio
Riondato allora presidente della Cassa di risparmio
di Padova e Rovigo, al direttore dell’Esu Giampaolo
Mercanzin e al professor Angelo Ventura. In
particolare l’attentato contro Ventura portò alla
luce i rapporti strettissimi tra Br e gruppi
dell’autonomia».
Che senso ha tornare sugli anni di piombo: non è
meglio dimenticare o perdonare?
«Molte persone che hanno organizzato la lotta
armata agiscono ancora oggi per nascondere la verità
e smontare le responsabilità accertate nei processi.
Finita quella stagione è calato un silenzio
assoluto: il terrorismo è stato considerato una
parentesi da chiudere in fretta, come se ci fosse la
volontà di coprire le incapacità e forse le
complicità di alcuni apparati dello Stato».
Secondo lei perché?
«Molti interrogativi sono rimasti senza
risposte: i terroristi godettero di una sostanziale
impunità per anni e i magistrati che indagarono
furono derisi e insultati dall’opinione pubblica.
Oggi molti protagonisti della lotta armata sono
invitati nelle trasmissioni tv e raccontano la loro
verità anche dalle cattedre dell’università. E si
tratta di verità completamente diverse dalle
certezze raggiunte con le sentenze. Il terrorismo va
inquadrato nel contesto storico e appare evidente
l’esistenza di una cattiva coscienza di alcuni
settori del mondo culturale e accademico che hanno
offerto spazi enormi ai protagonisti del crimine».
C’è una data che ha segnato la storia: 7 aprile
1979, il blitz di Pietro Calogero. Lei che ne pensa?
«Che senza quel blitz il terrorismo non sarebbe
stato sconfitto. Il dottor Pietro Calogero fu il
primo a comprendere le caratteristiche del partito
armato. L’inchiesta da lui coordinata raccolse le
prove che accertarono le responsabilità per fatti
specifici e scardinò l’impostazione strategica della
lotta armata. Per questa ragione le sentenze
definitive hanno confermato l’impostazione
dell’inchiesta della procura di Padova e si sono
concluse, contrariamente a quanto si fa credere ad
arte, con le condanne dei protagonisti dei gruppi
eversivi».
Si parlò molto di spontaneismo armato, di
atteggiamenti repressivi della magistratura, di
pentiti ammaestrati...
«Non è vero che le inchieste siano nate con il
contributo dei pentiti, ammaestrati dai magistrati.
Le dichiarazioni dei pentiti contribuirono a
ricostruire il contesto, a confermare le prove
raccolte dagli inquirenti. Le leggi sui pentiti e
sui dissociati sono state emanate nel 1979 e nel
1982, insomma quando le inchieste erano di fatto già
concluse. Lo spontaneismo armato è pura invenzione,
la violenza era frutto di una precisa
organizzazione. E sulla repressione consiglio di
leggere le sentenze: molti reati furono amnistiati
nel 1986, e vennero riconosciute in modo larghissimo
le attenuanti generiche a molti imputati».
Un libro destinato a riaprire polemiche: lei che
scopo si è prefisso?
«Uno solo: ricordare come sono andate davvero le
cose. In questi anni abbiamo assistito al
protagonismo degli ex terroristi e in troppi si sono
dimenticati delle vittime e di chi ebbe il coraggio,
spesso mettendo a repentaglio la propria incolumità,
di combattere la violenza politica. Ci sono stati
poliziotti, carabinieri, magistrati, operai,
professori, giornalisti che sono stati assassinati
dai terroristi: la democrazia è rimasta in piedi
grazie al loro sacrificio. Ricordare la verità
storica è un preciso dovere civile e morale».