Una
nuova legge sulla cittadinanza per
costruire una società più giusta
Il Mattino di Padova, 27 dicembre
2009
Martedì scorso la Camera ha iniziato
il dibattito sulla cittadinanza. Si
tratta di una questione fondamentale
per il futuro dell’Italia ed è
sorprendente il silenzio che la
circonda.
La legge in vigore, la numero 91
del 1992, ha bisogno di modifiche
sostanziali perché è inadeguata: è
superata dai flussi migratori che
hanno cambiato in profondità la
composizione sociale e culturale del
nostro Paese.
Negli ultimi 10 anni gli immigrati
regolari in Italia sono passati da
poco più di un milione a 4 milioni;
i minorenni da 186 mila a circa 900
mila.
La situazione è resa paradossale
dall’assurdità, causata da tutte le
forze politiche nel 2001 con le
norme sul voto degli italiani
all’estero, per cui l’immigrato che
da anni risiede regolarmente in
Italia, ha la famiglia qui e paga le
tasse, non è cittadino e non vota;
il figlio o il nipote di emigrati,
nato e vissuto sempre, per esempio,
in Argentina, che non ha mai visto
l’Italia e non paga le tasse qui, è
cittadino, vota per il Parlamento e
vota pure a domicilio.
Dall’inizio degli anni Novanta
tutti i principali paesi della
comunità europea hanno modificato le
norme sulla cittadinanza: in Gran
Bretagna e in Francia un immigrato
diventa cittadino dopo 5 anni di
residenza, in Germania dopo 8 e in
Italia dopo 10. I figli di immigrati
ottengono la cittadinanza del paese
dove nascono, se uno dei genitori vi
risiede da 4 anni in Gran Bretagna e
da 8 anni in Germania, mentre in
Francia il minore può chiedere la
cittadinanza a 13 anni, in Italia a
18 anni se ha risieduto senza
interruzione nello Stato.
Siamo uno dei pochissimi paesi a
fondare la cittadinanza soltanto
sullo ius sanguinis, basato sul
rapporto genealogico, e ad escludere
lo ius soli, basato sul luogo di
nascita.
Per queste ragioni è necessario
inserire nelle legislazione italiana
due elementi nuovi.
1) Favorire l’acquisizione della
cittadinanza dei figli di immigrati
nati in Italia, introducendo anche
da noi forme di ius soli.
2) Consentire al minore immigrato
legalmente residente in Italia, che
ha frequentato un corso di
istruzione o di formazione
professionale, di diventare
cittadino.
Il legame etnico di consanguineità,
lo ius sanguinis non determina
l’appartenenza a una nazione. Questa
è determinata dall’accettazione
volontaria di valori civici e
costituzionali della comunità
statale.
La nostra storia, se la studiamo con
attenzione e senza pregiudizi, ci
insegna che siamo tutti figli di
immigrati. La cittadinanza esprime
l’appartenenza di una persona a uno
Stato; appartenenza culturale,
politica e sociale ed esprime
un’identità tra il cittadino e la
comunità nella quale vive e opera.
Un popolo non può essere ridotto a
un legame di sangue, è il risultato
complesso di storia, cultura,
lingua, regole: è costituito da
identità collettive condivise e non
da rapporti di discendenza.
I 900 mila minori figli di immigrati
crescono come i loro coetanei figli
di italiani e, nella stragrande
maggioranza, sono destinati a
rimanere in Italia per il resto
della loro vita: frequentano le
stesse scuole, parlano la stessa
lingua, ascoltano la stessa musica e
guardano gli stessi programmi
televisivi, praticano gli stessi
sport, hanno le stesse aspirazioni e
aspettative. Insomma sono uguali ai
loro coetanei italiani, solo che non
sono cittadini.
Oggi l’Italia li accoglie ma dice
loro: «Non siete italiani perché non
avete sangue italiano». E’ un
messaggio devastante sul piano
culturale e può causare separazione,
esclusione, può favorire la
xenofobia e il razzismo.
Se è vero che i giovani
rappresentano il futuro di un Paese,
una parte importante del futuro
dell’Italia sarà affidata a questi
giovani figli di immigrati. Per
costruire un futuro migliore allora
è necessario promuovere adesso
elementi per favorire l’integrazione
e il coinvolgimento di questi
giovani nel sistema di valori,
diritti e doveri della nostra
Costituzione.
Promuovere cioè la formazione di
percorsi di acquisizione di
cittadinanza. Altrimenti si possono
insinuare e sviluppare sentimenti e
comportamenti di antagonismo,
rancore e odio.
Favorire l’acquisizione della
cittadinanza per i figli degli
immigrati nati in Italia e per gli
immigrati minorenni che risiedono e
studiano qui costituisce un elemento
fondamentale per costruire insieme
una società più giusta e più serena.
Per queste ragioni è necessario e
urgente modificare la legge sulla
cittadinanza con l’obbiettivo di
promuovere una coesione improntata
al rispetto dei principi
costituzionali, di chiedere alle
persone immigrate di farsi carico
dell’interesse pubblico e di
metterle in condizione di farlo.
Intervento dell'On.
Naccarato in assemblea
Proposte di legge:
Modifiche alla legge 5 febbraio
1992, n. 91, recante nuove norme
sulla cittadinanza
Camera dei Deputati, 22 dicembre
2009
Signor
Presidente, la legge in vigore sulla
cittadinanza, la n. 91 del 1992, ha
bisogno di modifiche sostanziali
perché inadeguata: è superata dai
flussi migratori che hanno cambiato
in profondità la composizione
sociale e culturale dell'Italia e
dell'Europa negli ultimi vent'anni e
che incideranno sempre di più in
futuro. Il nostro continente è
diventato la meta di milioni di
cittadini stranieri che scelgono di
abbandonare le nazioni di origine
per realizzare progetti per una vita
migliore. Negli ultimi dieci anni i
cittadini immigrati che vivono
regolarmente in Italia sono passati
da poco più 1 milione a 4 milioni; i
minorenni da 186 mila a circa 900
mila, con una crescita di 100 mila
all'anno negli ultimi tre anni. Dal
1992 il Parlamento non è stato
capace di affrontare seriamente la
questione e, al di là degli sforzi
delle diverse parti politiche, non è
riuscito a modificare la legge.
Oggi, finalmente, la questione
arriva all'attenzione della Camera e
il dibattito in corso costituisce
un'occasione per colmare il grave
ritardo accumulato in questi anni.
Se sottraiamo il tema della
cittadinanza alla propaganda - in
molti interventi dei colleghi della
maggioranza ho sentito solo un
richiamo al programma di Governo che
non prevede questo punto, ed è un
argomento, a mio avviso, che nulla
c'entra con il tema della
cittadinanza e sul quale, invece,
sarebbe utile evitare forme di
propaganda - dobbiamo essere tutti
consapevoli che rendere più
difficile l'acquisizione della
cittadinanza non ferma né rallenta i
flussi migratori, ma ferma soltanto
l'inserimento e l'integrazione nella
comunità degli immigrati regolari.
Dagli anni Novanta, tutti i
principali Paesi europei hanno
modificato le norme sulla
cittadinanza seguendo i seguenti
orientamenti: riduzione dei tempi di
permanenza regolare negli Stati ai
fini dell'acquisizione della
cittadinanza; semplificazione delle
modalità dell'acquisizione della
cittadinanza per nascita; aumento
delle verifiche per accertare
l'effettiva integrazione. Il
risultato è che in Gran Bretagna e
in Francia un immigrato diventa
cittadino dopo cinque anni di
residenza, in Germania dopo otto
anni, in Italia solo dopo dieci. I
figli di immigrati ottengono la
cittadinanza del Paese dove nascono
se uno dei genitori risiede là da
quattro anni in Gran Bretagna e da
otto anni in Germania, mentre in
Francia il minore può chiedere la
cittadinanza già a tredici anni, in
Italia a diciotto anni, se ha
risieduto senza interruzione nello
Stato. Siamo uno dei pochissimi
Paesi a fondare la cittadinanza
soltanto sullo ius sanguinis
basato sull'appartenenza genealogica
e ad escludere lo ius soli,
basato sul luogo di nascita. Ora,
oltre ad avere la legislazione più
arretrata, si rischia di andare
nella direzione opposta con la
proposta presentata dai gruppi di
maggioranza. Siamo arrivati alla
situazione paradossale determinata
con le norme sul voto dei cittadini
italiani residenti all'estero per
cui l'immigrato che da anni risiede
regolarmente in Italia, ha la
famiglia qui, paga le tasse, non è
cittadino e non vota. Il figlio o il
nipote di emigrati, nato e vissuto
sempre, ad esempio, in Argentina,
che non ha mai visto l'Italia e non
paga le tasse qui, è cittadino, vota
per il Parlamento e vota pure a
domicilio.
Credo che sia necessario inserire
nella nostra legislazione italiana
almeno due elementi nuovi. In primo
luogo, favorire l'acquisizione della
cittadinanza di figli di immigrati
nati in Italia, introducendo anche
da noi forme di ius soli,
pur mantenendo anche la cittadinanza
iure sanguinis.
L'introduzione dello ius soli
funzionerebbe sul piano pratico:
infatti se, come probabile, queste
persone rimangono in Italia, è
meglio concedere loro la
cittadinanza prima piuttosto che
dopo. E funzionerebbe anche come
principio: è più giusta ed
equilibrata, infatti, una società
basata sull'inclusione e sulla
condivisione rispetto ad un superato
legame di sangue che funzionava
quando eravamo una nazione di
emigranti. In secondo luogo,
consentire al minore immigrato
legalmente e residente in Italia,
che ha frequentato un corso di
istruzione e formazione
professionale, di diventare
cittadino.
Un popolo non può essere ridotto a
un legame di sangue. È il risultato
complesso di storia, cultura,
lingua, regole. Un popolo è fatto di
identità collettive condivise non da
rapporti di discendenza. I 900 mila
minori figli di immigrati crescono
con i loro coetanei figli di
italiani e, nella stragrande
maggioranza, sono destinati a
rimanere nel nostro Paese per il
resto della loro vita: frequentano
le stesse scuole, parlano la stessa
lingua, ascoltano la stessa musica e
guardano gli stessi programmi
televisivi, hanno le stesse
aspirazioni ed aspettative. Insomma,
sono uguali ai loro coetanei
italiani solo che non sono
cittadini. Oggi l'Italia li
accoglie, ma dice loro: non siete
italiani perché non avete sangue
italiano. È un messaggio devastante
sul piano culturale e può causare
separazione ed esclusione, favorire
la xenofobia e il razzismo,
alimentare paure e chiusure. Se è
vero che i giovani rappresentano il
futuro di un Paese, una parte
importante del futuro dell'Italia
sarà affidata a questi giovani figli
di immigrati. Per costruire un
futuro migliore allora è necessario
promuovere adesso elementi per
favorire l'integrazione e il
coinvolgimento di questi giovani nel
sistema di valori, diritti e doveri
della nostra Costituzione,
promuovere cioè la formazione di
percorsi di acquisizione di
cittadinanza. Altrimenti, si possono
insinuare e sviluppare sentimenti e
comportamenti di antagonismo,
rancore e odio verso le società
chiuse e ostili.
Dobbiamo favorire la condivisione
dei principi e dei valori del Paese
del quale si chiede di essere
cittadini. Per questo è utile
rendere più rigorosa la conoscenza
della lingua, della storia, delle
norme costituzionali e del
funzionamento delle istituzioni.
L'articolo 54 della nostra
Costituzione stabilisce che tutti i
cittadini hanno il dovere di essere
fedeli alla Repubblica e di
osservare la Costituzione e le
leggi. Per farlo, è necessario
conoscerle, pertanto chi chiede la
cittadinanza deve conoscere il
sistema al quale vuole partecipare.
Si deve prendere atto che il legame
etnico di consanguineità, lo ius
sanguinis, non determina
l'appartenenza a una nazione. Questa
è determinata dall'accettazione
volontaria di valori civici e
costituzionali della comunità
statale. La nostra storia, se la
studiamo con attenzione e senza
pregiudizi, ci insegna che siamo
tutti figli di immigrati. La
cittadinanza, intesa come
condivisione pratica dei valori, dei
diritti e dei doveri costituzionali,
si rafforza soltanto se è esercitata
tutti i giorni con continuità. La
cittadinanza esprime l'appartenenza
di una persona a uno Stato,
appartenenza culturale, politica e
sociale ed esprime un'identità tra
il cittadino e la comunità nella
quale vive e opera. Cittadino è chi
partecipa attivamente ed
effettivamente alla vita culturale,
politica e sociale dello Stato. La
legge deve promuovere il desiderio
di assumersi responsabilità e di
farsi carico della cosa pubblica.
Favorire l'acquisizione della
cittadinanza per i figli degli
immigrati nati in Italia e per gli
immigrati minorenni che risiedono e
studiano qui costituisce un elemento
fondamentale per costruire insieme
una società più giusta e più serena.
Per queste ragioni, ritengo
necessario e urgente modificare la
legge sulla cittadinanza con
l'obiettivo di promuovere una
coesione improntata al rispetto dei
principi costituzionali fondamentali
e di chiedere alle persone immigrate
di farsi carico dell'interesse
pubblico e di metterle in condizioni
effettive di farlo.
La conferenza stampa di
Gallo e Naccarato
Il PD
all'attacco
Gallo: la giunta
Galan
svende gli alloggi
Il Mattino di Padova, 9 gennaio 2010
PADOVA.
Una disparità di trattamento. Che
rischia di mettere in ginocchio il
piano di vendita di case comunali
elaborato dall’assessore Antonino
Pipitone. Il casus belli lo
sollevano l’onorevole Alessandro
Naccarato e Giovanni Gallo,
capogruppo del Pd in Regione. Sotto
accusa una delibera approvata in
Regione lo scorso 27 ottobre, mai
arrivata in consiglio. Ma che
potrebbe approdare con la nuova
legislatura. In sostanza si mettono
in vendita 3.360 case Ater, solo
sulla provincia di Padova, ad un
prezzo calcolato in base ai canoni
di affitto degli inquilini. La
stessa decisione presa da Antonino
Pipitone per 582 delle case popolari
del Comune di Padova. Solo che
queste andranno in vendita al prezzo
di mercato scontato del 20%, sempre
agli inquilini. Tradotto in cifre,
la regione svenderebbe le sue case
ad un prezzo dimezzato rispetto a
quello del Comune, andando in deroga
ad una legge approvata nel 2001
dalla stessa maggioranza di
centrodestra.
«Nel caso del Comune si venderebbe
ad un prezzo equo, in modo da poter
poi come previsto utilizzare i
ricavati e reinvestire nel
patrimonio residenziale pubblico -
spiega Naccarato - mentre nelle
stesse strade, magari, la Regione
vende a metà prezzo, drogando il
mercato e non riuscendo certo a
recuperare euro per comprare nuove
abitazioni». A conferma ecco le
cifre: il prezzo medio di vendita
delle case padovane si aggira sui
107 mila euro. Per la Regione,
invece, un appartamento in via
Baiardi di 90 metri quadri varrebbe
fra i 42 e gli 88 mila euro, uno di
60 in via Stratico fra i 17 e i
36mila, 70 metri in via Duprè circa
60mila. Con conseguente
deprezzamento generale, visto che le
case Ater (cioè di proprietà
regionale) sono 1.686. «Alcuni
esponenti del Pdl padovani hanno
accusato Pipitone di svendere,
provino un po’ a guardare cosa
vogliono fare loro in Regione»
conclude Gallo.
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